Sanità digitale: aumentano investimenti, ma ancora pochi cittadini la sfruttano

Sanità digitale: aumentano investimenti, ma ancora pochi cittadini la sfruttanoSono stati presentati a Milano i dati dell’11a edizione dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità della School of Management del Politecnico di Milano.
Un primo dato interessante messo in evidenza dal rapporto è che, nonostante le strutture sanitarie stiamo mettendo in atto alcuni passi per rendere sempre più digitale il mondo della sanità e, in contemporanea, i medici abbiano a propria disposizione vari canali per gestire il proprio lavoro e comunicare con i propri assistiti, l’italiano medio preferisce mettersi in gioco di persona quando si tratta della propria salute.

La tabella 1 mostra come, preso come campione il numero di cittadini che hanno effettuato un accesso al servizio, oltre l’80% preferisca recarsi di persona sia a pagare il ticket riferito a una prestazione sanitaria, che a ritirarne gli esiti. Le percentuali non cambiano molto se si parla di ricevere un consulto medico (86%) o di chiedere un secondo parere a fronte di un esame diagnostico già effettuato: rispettivamente l’86% e il 79% del campione si recano personalmente a fare entrambe le cose.

Tabella 1.

La situazione si fa più articolata se si parla di raccogliere informazioni sulle strutture e le prestazioni sanitarie, dove l’uso del web equipara quasi il recarsi in struttura (40% contro il 47%) e di prenotare visite specialistiche ed esami, settore in cui la telefonata vince sulla coda allo sportello (51% contro 44%). Resta comunque il fatto che per tutte queste azioni sono quasi del tutto inutilizzati i nuovi sistemi disponibili, dal web alle app.

Formare i cittadini sui nuovi mezzi è fondamentale

Probabilmente esiste un problema di comunicazione. Se si considera che l’indagine di quest’anno ha rivelato che il 63% dei medici di famiglia e il 52% degli specialisti utilizza WhatsApp, soprattutto per scambiare facilmente dati, immagini e informazioni con i propri pazienti, il dato che solo il 12% dei cittadini sfrutta lo stesso strumento è indicativo.
Le percentuali non salgono di molto nemmeno quando si parla di posta elettronica (15%) e sms (13%).

Diverso è il discorso relativo alle app.
Se ne parla tanto, ma qual è il loro reale tasso di diffusione e utilizzo? Emanuele Lettieri, responsabile scientifico dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità, risponde: «le app per accedere a servizi e informazioni di tipo sanitario non sono ancora particolarmente diffuse, perché l’offerta da parte di Regioni e aziende sanitarie non è matura o comunicata correttamente agli utenti.

Emanuele Lettieri

Alla mancanza di offerta si aggiunge la limitata affidabilità percepita di questi strumenti sia da parte delle fasce di cittadini più diffidenti nei confronti delle tecnologie sia da parte dei medici che, soprattutto per le app di coaching, chiedono che i mezzi digitali siano certificati e valutati in termini di costo-efficacia. Per avvicinare i cittadini al digitale, dunque, è necessario aumentare l’offerta di servizi, rendendoli più facili da usare e mettendone in luce l’affidabilità e il valore».

Numeri alla mano, le app più usate sono quelle che permettono di individuare la farmacia di turno aperta, usate da 1 cittadino su 4, oppure quella più vicina, usate da 1 su 5.
Il 19% ha inoltre dichiarato di usare le app per avere informazioni sui farmaci. Ritenute interessanti anche app che permettono di prenotare il farmaco in farmacia e di valutare le code ai diversi Pronto Soccorso del territorio. Per entrambi gli ambiti, però, ci sono ancora poche disponibilità, con quale sperimentazione qua e là. Accanto a queste, sono utilizzate le app di coaching, quelle che aiutano a vivere una vita più sana: il 19% dei cittadini utilizza app per monitorare lo stile di vita (per esempio, l’alimentazione e gli allenamenti), il 12% per controllare i parametri vitali (battito, pressione ecc.), il 7% per ricevere avvisi su controlli medici o esami periodici.
In tutti i casi, il maggiore utilizzo si ritrova nelle fasce d’età comprese tra i 35 e i 44 anni.

Se ho analizzato l’uso del cittadino italiano a sfruttare le tecnologie digitali in sanità è perché senza una valida comunicazione parte degli investimenti che vengono fatti da Regioni, strutture ospedaliere rischiano di rimanere “inutilizzati”.
E non si parla di piccoli numeri. I dati del 2017 parlano, infatti, di 890 milioni di euro investiti dalle strutture ospedaliere, cui si sommano i 320 milioni delle Regioni, i 72,9 milioni dei medici di medicina generale e i 16,7 milioni del Ministero della Salute (tabella 2).

Tabella 2.

Ovviamente, il cittadino è solo uno degli attori di questa rivoluzione, che deve proseguire, come ricorda Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità: «con il progressivo invecchiamento della popolazione il divario fra bisogni di cura e risorse a disposizione è destinato a crescere e l’innovazione digitale è l’unica leva per rendere sostenibile il sistema sanitario.

Mariano Corso

La leggera crescita degli investimenti per la sanità digitale è una buona notizia, ma non basta per colmare il divario esistente. Serve un rinnovamento dei modelli organizzativi delle aziende sanitarie, spostando le prestazioni dall’ospedale al territorio e migliorando l’accesso alle cure. È necessaria la partecipazione attiva dei cittadini alla corretta gestione della propria salute, da incentivare attraverso l’adozione di strumenti digitali utili per comunicare con il medico, per accedere ai propri dati clinici, come il Fascicolo Sanitario Elettronico, e per monitorare il proprio stile di vita, come le app.
Serve, infine, lo sviluppo delle necessarie competenze digitali degli operatori sanitari, sia nelle università che attraverso piani di formazione continua sul posto di lavoro».
Se fin qui abbiamo visto il punto di vista dei pazienti, ora vediamo che cosa pensano le direzioni strategiche della sanità italiana.

CCE al primo posto. Telemedicina fanalino di coda

Un’analisi condotta su un campione di 116 direttori strategici ha permesso di stilare una sorta di classifica degli ambiti in cui si considera più importante sviluppare la digitalizzazione.
Al primo posto si trova la Cartelle Clinica Elettronica (CCE), ritenuta rilevante dal 72% del campione, con un +59% rispetto all’anno precedente. In effetti, gli investimenti per implementare questo strumento sono stati pari a 47 milioni di euro nel 2017. Restano però anche in questo caso ampi margini di miglioramento, perché le CCE attualmente sviluppate raramente contengono funzionalità avanzate che permettano, per esempio, di gestire il diario medico o infermieristico e la farmacoterapia.

Tabella 3.

Al secondo posto si trovano i servizi digitali al cittadino, ritenuti fondamentali dal 59% dei direttori interpellati; a questi servizi sono stati destinati 19 milioni di euro di investimenti, contro i 14 milioni dell’anno precedente.
Si tratta, inoltre, di un settore che in molti hanno dichiarato di volere ulteriormente rinforzare in questo 2018.
Di quali servizi stiamo parlando? Fondamentalmente di scaricare i referti degli esami via internet, prendere appuntamenti, confermarli, spostarli e così via. Circa 1/3 delle aziende interpellate offrono app per gestire questi aspetti.

Il terzo posto è occupato, pari merito da “gestione documentale e conservazione a norma” e da “sistemi di integrazione con sistemi regionali/nazionali”, con un 55% di interesse. Seguono una serie di aspetti interessanti per la gestione interna della struttura ospedaliera, che non solo permetterebbero di creare un sistema ospedale ben oliato, in cui ogni operatore sa dove trovare gli strumenti che gli necessitano, le sale operatorie sono perfettamente organizzate e così via: sistemi dipartimentali e sistemi di front end (48%); sistemi a supporto della clinical governance e gestione informatizzata dei farmaci (47%); business intelligence (45%); disaster recovery (43%); gestione amministrativa delle risorse umane e gestionali di reparto (39%); soluzioni per medicina sul territorio e AD (38%); telemedicina (37%); cloud computing (30%); mobile hospital (26%). Tra i dati presentati pare interessante parlare della relazione ospedale/territorio e della sicurezza informatica.

Telemedicina e territorio: un settore che si è arrestato

L’aumento delle cronicità, la popolazione che invecchia, un sistema che non può più ruotare intorno all’ospedale, considerato luogo di elezione per le patologie acute, hanno portato negli ultimi anni a parlare molto di medicina di territorio. Un ruolo essenziale, in questo schema, hanno i medici di medicina generale e le case della salute, per esempio. Così come i piccoli ospedali.
Per gestire i casi meno gravi sul territorio è fondamentale sviluppare la telemedicina, un ambito che invece il rapporto di quest’anno indica come fermo. Inoltre, fa pensare il fatto che sia considerata primaria solo dal 38% degli interpellati. L’Osservatorio sottolinea ancora che quando si parla di telemedicina, ci si riferisce in larga parte a teleconsulto tra le diverse strutture ospedaliere e i dipartimenti. Molto poco diffusi, invece, i servizi di teleassistenza e telesalute tra ospedale e territorio, utile per affiancare mmg e altri specialisti nel loro processo di diagnosi e cura.
Parallelamente, in effetti, risulta che sono ancora pochi i mmg e gli specialisti sul territorio dotati di strumenti per sfruttare la telemedicina. Anche in questo caso il teleconsulto va per la maggiore, coinvolgendo l’11% degli specialisti presi a campione e il 4% dei mmg.
Le percentuali, come si vede, sono in ogni caso basse.

Accanto a questo discorso si potrebbe parlare anche dell’uso di strumenti digitali da parte dei mmg per condividere, per esempio, un piano di assistenza individuale con il propri assistiti: in questo caso solo il 9% dei medici interpellati lo fa.
Le percentuali scendono ancora se si considerano i medici di famiglia che usano gli strumenti digitali per far parte di PDTA che coinvolgono il proprio assistito. Vi è poi un altro ambito che potrebbe essere reso più semplice al paziente: quello della prenotazione delle prestazioni sanitarie.

Ci sono già Regioni, come la Toscana, in cui si sono avviate sperimentazioni in questo senso: è il mmg che prenota direttamente la prestazione all’assistito, stabilendone anche la priorità sulla base dell’indagine che ha effettuato. Ma il rapporto evidenzia un’altra situazione a livello nazionale: parecchi dei medici interpellati sostiene che il servizio potrebbe essere utile, ma solo il 15% crede che ci siano tempo e strumenti adeguati per renderlo attuale.

Inoltre, non pochi sostengono che lo farebbero, ma solo se il lavoro svolto fosse sostenuto da personale dedicato (64%) e riconosciuto economicamente (61%).
Cristina Masella, responsabile scientifico dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità, commenta questi dati: «nel complesso emerge una crescente consapevolezza che le soluzioni digitali potrebbero giocare un ruolo fondamentale nel supportare la transizione verso nuovi modelli di cura che, per loro natura, richiedono collaborazione tra gli attori del sistema e integrazione di informazioni e servizi.

Cristina Masella

La diffusione di tali soluzioni, tuttavia, stenta oggi a realizzarsi perché manca una orchestrazione coerente della transizione al digitale e perché oneri, rischi e benefici attesi dall’introduzione di nuovi strumenti e modalità di lavoro non sono percepiti come ripartiti equamente fra gli attori del sistema».
Per concludere, parliamo di big data e degli adeguamenti richiesti dal nuovo Regolamento europeo per Protezione dei Dati Personali (GDPR) che entra in vigore il 25 maggio.

I big data: un ruolo strategico da utilizzare

Il 70% delle direzioni li reputa un aspetto prioritario, mentre il 55% dei CIO sono convinti che la loro applicazione sia essenziale per la medicina di precisione e vivrà un boom nei prossimi cinque anni.
Resta il fatto che gli investimenti in questo settore hanno visto una lieve flessione, con 13 milioni di euro spesi a fronte dei 15 milioni dell’anno precedente. Un arresto in parte legato alla complessità dell’ambito stesso.

Secondo i CIO interpellati, infatti, le risorse economiche da dedicare ai big data e alla loro analisi sono ancora poche. Inoltre, mancherebbero competenze interne alle strutture ospedaliere capaci di mettere a punto dei progetti di largo respiro.
Lo dimostra il fatto, per esempio, che la figura del Data Protection Officer (DPO), richiesta dal GDPR, è ancora assente negli organici della maggioranza delle strutture ospedaliere (55%), il che richiederà la collaborazione da parte di risorse esterne.
Inoltre, per prepararsi alla normativa, l’82% delle aziende ha condotto un data audit – un’analisi dei dati gestiti dall’azienda e dei processi che li utilizzano per evidenziare cosa manca per adeguarsi al GDPR – e il 76% ha revisionato e aggiornato le proprie policy e processi.

Una minoranza (35%), invece, ha valutato la necessità di apportare modifiche ai rapporti commerciali correnti (per esempio, con i fornitori di soluzioni digitali).
Nella quasi totalità dei casi sono state coinvolte la Direzione ICT (94%) e la funzione legale (76%), mentre circa metà delle strutture ha ritenuto opportuno ricorrere a fornitori di soluzioni digitali o società di consulenza.
Il 68% delle aziende, infine, prevede sessioni per tutto il personale di sensibilizzazione e consapevolezza sulla protezione dei dati.

Stefania Somaré