La colpa nelle professioni sanitarie

Reassuring male doctor in operating roomAntev, Associazione Nazionale Tecnici Verificatori, fa il punto sulla questione, che la recente evoluzione normativa e giurisprudenziale rende particolarmente complessa.

Delle colpe professionali in ambito tecnico e sanitario si potrebbe parlare per giorni, ma il pomeriggio del 21 maggio a Bologna in Exposanità è bastato a esporre i termini essenziali della questione e a darci un’idea della sua complessità. Invitati da Antev, il cui presidente Costantino Carraro ha fatto da moderatore nella discussione, ne hanno parlato Maurizio Ascione (sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Milano), Marco Boretti (giudice di pace onorario a Torino), l’avvocato civilista Marta Gerli e la direttrice dell’Ufficio V del Ministero della salute, Rosaria Boldrini.

Il quadro normativo e la giurisprudenza
In materia di responsabilità civile, la giurisprudenza recente ha subito un’evoluzione da un concetto di responsabilità extracontrattuale fino all’affermazione di una responsabilità di tipo contrattuale.
Con le parole di Marco Boretti, giudice onorario presso l’ufficio del giudice di pace di Torino: «una certa giurisprudenza è andata a empatizzare con il paziente che chiede un risarcimento, paziente che avendo affidato ad un medico il proprio bene costituzionalmente garantito, la vita e la salute, ha il diritto di essere tutelato». E questo ha portato a due tipi di reazioni: una reazione difensiva negativa consistente nell’evitare di effettuare interventi rischiosi, e una reazione difensiva attiva con la quale il medico prescrive numerose, ed eccessive, indagini preventive, tra l’altro imponendo costi non necessari al Sistema sanitario nazionale.
Un elemento particolarmente importante dell’attuale scenario normativo è il decreto legge 158/2012 (noto come decreto Balduzzi). Esso ha stabilito che l’esercente una professione sanitaria che nella propria attività si sia attenuto alle linee guida e buone pratiche della comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. Ma lo stesso decreto dice anche che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art 2043 del codice civile, il cui oggetto è la responsabilità extracontrattuale.
Questo ha fatto temere – ed è anche il motivo che ha spinto il tribunale di Milano a sollevare una questione di legittimità costituzionale, respinta dalla Corte costituzionale – un ritorno della giurisprudenza alla responsabilità extracontrattuale, in controtendenza rispetto all’evoluzione sopra detta.
Questo orientamento verso la responsabilità contrattuale ha notevoli conseguenze sul processo e sull’onere della prova, perché per il paziente danneggiato è sufficiente provare di avere avuto un rapporto con la struttura ospedaliera per poter introdurre la domanda risarcitoria, mentre si trasferisce in carico al debitore della prestazione (medico, operatore sanitario in generale) l’onere di provare la propria non colpevolezza.
Ma la giurisprudenza degli ultimi 15 anni non sembra dare molte certezze, e ne sono testimonianza alcune sentenze, tra loro in netto disaccordo, che l’avvocato Gerli ha ricordato. <!–nextpage–>
Nel 2000 la terza sezione civile della Corte di cassazione ha stabilito che la responsabilità e i doveri del medico in materia di consenso informato si estendono allo stato di efficienza e al livello di dotazioni della struttura sanitaria in cui presta la sua attività, e si traducono in un ulteriore dovere di informazione del paziente. Il quale potrà perciò decidere, in base alle informazioni ricevute, non solo se sottoporsi o meno all’intervento, ma anche se farlo in quella struttura o chiedere di trasferirsi un un’altra. Una poco onesta informazione sul punto può configurare una negligenza grave, della quale il medico risponderà in concorso con l’ospedale sul piano della responsabilità civile, quindi su quello del risarcimento del danno (ed eventualmente anche sul piano professionale, deontologico, disciplinare).
Ma va in senso parzialmente contrario una sentenza del 2005 della Corte d’appello di Roma, che stabilisce che è escluso che al sanitario competa la puntuale verifica dell’operato dei collaboratori e dello stato di manutenzione degli apparecchi. A fondamento della decisione è richiamata la norma civilistica sulla responsabilità per custodia; e viene affermato che il medico chirurgo non è custode delle apparecchiature strumentali, poiché il concetto di custodia implica il potere fisico del soggetto nei confronti della cosa, che in questo caso è esclusivamente della struttura sanitaria.
E invece nel 2012 ancora la terza sezione della Cassazione ha definito il medico come debitore della prestazione chirurgica o terapeutica promessa e ha quindi affermato la sua responsabilità anche sull’operato dei terzi di cui si avvale; responsabilità che comprende anche un dovere specifico di controllo del buon funzionamento delle apparecchiature necessarie all’esecuzione dell’intervento.
Marta Gerli ha anche brevemente discusso le questioni relative alle previsioni del decreto legislativo 81 del 2008 relative alla responsabilità del datore di lavoro per quanto riguarda la sicurezza dei dispositivi medici e delle apparecchiature mediche. Sull’installazione e la manutenzione ci sono due diverse ipotesi: o il fabbricante ha dato indicazioni precise relativamente al personale abilitato a queste operazioni e alle sue qualifiche, oppure ha lasciato libero l’utilizzatore circa la scelta del personale. In questo secondo caso si delinea un profilo di responsabilità in carico all’utilizzatore quanto alla propria diligenza nella scelta degli installatori e manutentori, la cosiddetta culpa in eligendo. E l’applicazione di norme tecniche configura sì un obbligo di diligenza, ma non esime dal porre in essere ulteriori adempimenti se necessario: anche sotto il profilo dell’installazione e della manutenzione non è sufficiente attenersi alle buone prassi e linee guida ma occorre, se necessario, porre in essere ulteriori adempimenti.
E da ultimo l’avvocato Gerli ha ricordato la raccomandazione emanata il 9 aprile 2009 dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, che affronta il problema della manutenzione delle apparecchiature e afferma che l’attività di manutenzione delle tecnologie biomediche sta evolvendo da una concezione di pura operatività (ripristino delle apparecchiature non funzionanti) a una vera e propria funzione manageriale volta alla riduzione dei rischi connessi all’uso dei dispositivi medici, alla diminuzione dei tempi di utilizzo, alla prevenzione dei guasti e alla garanzia della qualità. E ha concluso con questa rapida sintesi: «la tendenza del diritto in questa materia è verso la massima garanzia del paziente. Lo vediamo sia nel processo penale, sia in quello civile, sia nelle disposizioni di carattere amministrativo». <!–nextpage–>

La responsabilità dell’operatore sanitario nel processo penale
Il concetto da cui è partito Maurizio Ascione è quello di rischio consentito. L’attività medica è di per se rischiosa, ma dottrina e giurisprudenza distinguono tra rischio consentito e rischio non consentito; e per ciascuna branca della medicina hanno definito, anche con l’apporto del legislatore, sempre più dettagliate norme di cautela che servono – in sede processuale – per stabilire se vi è stato o non vi è stato superamento del livello di rischio consentito.
Insomma non ogni esito infelice di attività sanitaria determina una responsabilità penale del medico e dei suoi collaboratori, perché il nostro ordinamento giuridico – in particolare il diritto penale – si fonda sulla responsabilità personale colpevole: per giungere a una declaratoria di condanna per omicidio colposo o lesioni colpose è quindi necessario che si verifichino due presupposti.
Il primo è di carattere generale: deve essere accaduto che il medico, nella gestione del paziente, non abbia osservato in maniera scrupolosa i dettami e le prescrizioni che la migliore scienza ed esperienza del momento – su base internazionale – gli mettevano a disposizione. Non basterà, per escludere la responsabilità del medico, sostenere che questi si è attenuto a un livello medio di diligenza, a buone prassi di condotta terapeutica, se poi emerge dalle indagini del Pubblico Ministero che esistevano da qualche parte nel mondo protocolli scientifici (noti alla comunità medica internazionale) che avrebbero consentito una migliore risposta al male che aveva colpito il paziente.
Il secondo presupposto è di carattere particolare e si verifica se il medico, pur in presenza di una rigorosa osservanza dei protocolli di cui poca fa si diceva, non ha agito nel modo più adatto alle particolari condizioni del singolo caso individuale che era sottoposto alla sua cura. Questo era stato il tema di una sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione, anno 2002, che affermava il dovere del medico di scandagliare in profondità tutto il quadro clinico del caso singolo, considerare le condizioni cliniche di partenza, la tempistica nell’avvisaglia di complicanze, il contesto informativo e relazionale tra lo stesso paziente e il medico, e l’ipotesi che lo stesso caso fosse trattato da più medici.
Con questa sentenza e la seguente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale le regole cautelari che valgono per la verifica processuale-penale della colpa medica sono diventate sempre più specifiche: non è più possibile ammettere (o escludere) una responsabilità penale del medico sulla base di regole generali valide anche per un singolo settore specialistico della medicina.
È necessario dunque un notevole investimento nell’aggiornamento professionale, nell’essere sempre al passo coi tempi: non è sufficiente la conoscenza media, né quella di carattere nazionale, ma la conoscenza più avanzata su base internazionale.
E attenzione alla responsabilità di equipe, se il passaggio del paziente da un medico all’altro non è in successione ma contestuale. Il tema non riguarda solo l’equipe chirurgica, ma anche colleghi e collaboratori del primario, fino agli specializzandi. È responsabilità e obbligo del magistrato analizzare quale è stato il ruolo in concreto di ciascun membro del gruppo sanitario che si è occupato del caso, anche ascoltando i diretti interessati: il medico destinatario di un avviso di garanzia, se ritiene di farsi interrogare dal magistrato, potrà apportare dati conoscitivi utili ad approfondire la vicenda. <!–nextpage–>

Il sistema di vigilanza sui dispositivi medici
Questo il tema dell’intervento di Rosaria Boldrini, che qui riassumiamo.
L’obiettivo ultimo del sistema di vigilanza: garantire protezione della salute e sicurezza dei pazienti. Il sistema deve innanzitutto essere in grado di identificare i problemi legati ai dispositivi e definire le azioni correttive idonee ad eliminare il problema. E deve garantire che queste ultime vengano implementate.
Per ottenere questi risultati è fondamentale che le informazioni rilevanti circolino tra tutti gli attori del sistema di vigilanza, che è un sistema complesso con diversi attori collocati a vari livelli: Ministero della salute (con funzione di autorità competente), regioni, aziende sanitarie, fabbricanti. E poi la comunità internazionale, europea e oltre.
Il sistema di vigilanza ha un ruolo fondamentale nel settore dei dispositivi medici ancora più che in quello farmaceutico. Non sempre possono essere compiutamente sperimentati in fase pre-commercializzazione, e molti di essi sono progettati per essere usati a lungo, così che accade che si manifestino difetti quando il dispositivo è già sul mercato ed è in uso.
I riferimenti normativi che regolano l’attività di vigilanza sui dispositivi medici sono gli stessi che regolano i dispositivi medici in generale, cioè i decreti legislativi di recepimento delle direttive europee del 1990 e del 1993. Ci sono poi norme di carattere nazionale che danno indicazioni sulle modalità di vigilanza, e le linee guida Meddev (Linea guida sul sistema di vigilanza sui dispositivi medici, emanate dalla Commissione europea) che sono aggiornate molto frequentemente (la tempestività è necessaria, considerando i tempi di obsolescenza anche brevissimi di alcuni dispositivi medici).
In questo quadro normativo è definito incidente (evento che deve essere segnalato all’autorità competente) qualsiasi malfunzionamento o alterazione delle caratteristiche e delle prestazioni di un dispositivo medico, nonché qualsiasi inadeguatezza dell’etichettatura o nelle istruzioni per l’uso, che possono essere stati causa di decesso o di grave peggioramento nelle condizioni di salute di un paziente o di un utilizzatore.
Ma in concreto, come l’operatore sanitario deve regolarsi per decidere se un determinato evento a lui noto deve essere considerato un incidente in senso proprio, e quindi segnalato all’autorità competente? Le linee guida Meddev sono un utile aiuto, e suggeriscono tre criteri fondamentali. In primo luogo deve essersi verificato un evento, qualcosa come un malfunzionamento, un deterioramento, un risultato falso (nei test diagnostici in vitro) o anche un utilizzo non appropriato del dispositivo dovuto a cattiva etichettatura o carenti istruzioni per l’uso. Poi deve esserci – anche solo sospettata – una correlazione tra questo evento e l’utilizzo del dispositivo. Infine, deve esserci stata una conseguenza seria (attuale o potenziale) sulla salute del paziente. <!–nextpage–>
Qual è il ruolo dell’operatore sanitario nel sistema di vigilanza? È un ruolo fondamentale: è il primo anello della catena, è il soggetto che ha l’obbligo di fare la segnalazione al Ministero della salute. Questa segnalazione va fatta o direttamente o dalla struttura sanitaria, nel rispetto di eventuali disposizioni regionali che prevedono la presenza di referenti per la vigilanza sui dispositivi medici. E questa è la maggiore criticità attuale del sistema, perché da una parte la norma prevede un obbligo ben preciso in capo all’operatore sanitario con sanzioni in caso di mancata segnalazione, ma non prevede quale struttura organizzativa deve essere definita per garantire che questa segnalazione arrivi al Ministero.
Anche il fabbricante ha un ruolo fondamentale nel sistema di vigilanza, perché ha sempre l’obbligo (con relative sanzioni in caso di inottemperanza) di trasferire informazioni di incidente al Ministero della salute in modo tale che ogni evento possa essere registrato e indagato.
Ma non c’è molta chiarezza organizzativa. In proposito, l’unico atto ufficiale emanato è una circolare del luglio 2004 in cui si invitavano gli assessori regionali a nominare i responsabili della vigilanza per le proprie strutture sanitarie. Ma il modello suggerito da questa circolare è stato interpretato in modo diverso dalla varie regioni, e troviamo ora molta disomogeneità sul territorio: non in tutti i casi c’è un responsabile della vigilanza, in alcuni abbiamo a volte una ben precisa definizione di ruolo, in altri si è lasciata libera ciascuna struttura di decidere la propria organizzazione.
Gli operatori con ruolo puramente tecnico, come i tecnici verificatori, non sono esplicitamente soggetti all’obbligo di segnalazione al Ministero (e sarebbe invece auspicabile che a quest’ultimo arrivassero anche le segnalazioni di queste figure dotate di competenze particolarmente critiche); ma sono comunque obbligati alla segnalazione al datore di lavoro, per effetto del decreto legislativo 81/2008.
Dovranno essere fatti ancora molti progressi, dunque, verso una chiara organizzazione istituzionale, ma non sarà sufficiente: dovrà anche essere creata una rete informatica che assicuri che le informazioni arrivino in tempi brevissimi e siano gestite in modo accurato e efficiente.
Quanto alla gestione del dispositivi medici che sono stati oggetto di incidente, non ci sono indicazioni certe. Un documento del Ministero della salute, redatto dalla Commissione unica dei dispositivi medici, ha dato alcune indicazioni su come conservare il dispositivo e renderlo disponibile al fabbricante per le ulteriori indagini. Queste indicazioni sono però molto generiche e non tengono conto delle evoluzioni successive dei dispositivi medici, e questa mancanza di chiarezza rinforza la tendenza delle strutture sanitarie a non mettere subito il dispositivo a disposizione del fabbricante per le necessarie tempestive indagini, in attesa delle disposizioni della magistratura.
Ma le cose si stanno muovendo e possiamo essere ottimisti. Qualche nota positiva: da gennaio 2014 è possibile fare le segnalazioni tramite web; l’ultima edizione delle linee guida Meddev è disponibile in traduzione italiana; è stata creata una banca dati un cui vengono registrate tutte le segnalazioni e le azioni correttive, nucleo del sistema informativo di cui si diceva sopra.
In conclusione: il sistema di vigilanza sui dispositivi è ancora acerbo, non ha ad oggi la chiarezza e solidità del sistema di vigilanza sui farmaci. Ma è attivo, funziona, e l’Italia non è seconda a nessuno nell’Unione europea: solo da noi esiste già da tempo l’obbligo di segnalazione degli incidenti da parte degli operatori sanitari (obbligo che sarà introdotto anche per gli altri stati con il nuovo regolamento europeo sui dispositivi medici, prevedibilmente emanato l’anno prossimo). Anche negli altri stati membri dell’Unione si trovano le criticità descritte, e i funzionari italiani partecipano a specifiche task force per fare crescere questo settore non solo nell’ambito nazionale ma anche in quello europeo.
A margine del convegno abbiamo chiesto a Costantino Carraro, presidente di Antev, qualche parola sul ruolo dei tecnici verificatori nel sistema di vigilanza. Lasciamo a lui la chiusura di questo resoconto, ringraziando i lettori che hanno avuto la pazienza di seguirci fin qui. «I tecnici verificatori operanti nelle organizzazioni di ingegneria clinica pubblica e privata dovrebbero avere un ruolo più forte e riconosciuto nel sistema di vigilanza, perché la loro professionalità li rende capaci di mettere in evidenza le problematiche di sicurezza e funzionali dei dispositivi elettromedicali. Purtroppo la valutazione delle loro competenze è ancora totalmente in carico al committente o al datore di lavoro, pur esistendo criteri di qualificazione o di certificazione oggettivi indicati nella Legge 4/2013; con i conseguenti rischi: si pensi che l’errore nella valutazione della sicurezza o della funzionalità di un apparecchio elettromedicale da parte di un tecnico può portare al verificarsi di incidenti e a molteplici responsabilità. Anche per questo motivo l’associazione da me presieduta ha stabilito un regolamento di accettazione e qualifica dei propri associati in modo da definire con chiarezza chi può essere considerato persona competente ai sensi del decreto legislativo 81/2008».

Pierluigi Ronchi