Uno studio clinico autorevole non può prescindere dal considerare fra i parametri di valutazione anche l’impatto terapeutico indotto sulla qualità di vita del paziente.
Endpoint non sempre considerato o comunque non sempre tenuto in debita considerazione dai lavori scientifici o non registrato fra i dati rilevanti dello studio stesso.
Al contrario, è una variabile fondamentale per la decisione del percorso terapeutico e del valore aggiunto del farmaco.
Un aspetto sottolineato anche dal Clinical Research Course, un corso di formazione conclusosi a Roma da pochi giorni, il primo nato in Italia dalla collaborazione fra Asco (Società americana di oncologia clinica) e Aiom (Associazione Italiana di Oncologia Medica).
Le evidenze
Più qualità negli studi clinici, intesa non soltanto come rigorosa metodica con cui la ricerca viene condotta, ma come parametro di valutazione in grado di aggiungere valore al benefico terapeutico.
Endpoint attenzionato e incluso dal 70% degli studi clinici di ambito oncologico condotti negli anni 2017-2021 versus poco meno del 53% degli anni 2012-2016.
Eppure, esiste ancora un gap importante: i dati sulla qualità di vita, ovvero i sintomi riferiti dal paziente, sono una componente che entra in discussione solo in 1 trial clinico su 2, segnando una percentuale in netto e costante calo rispetto al 62% degli studi del periodo 2012-2016.
Lo attesta uno studio italiano su BMJ Oncology che ha messo a confronto 388 sperimentazioni del periodo 2017-2021 con 446 del quinquennio 2012-2016.
I PRO
Sigla di Patient Reported Outcomes include i pool sintomi, compreso benessere fisico, emotivo, sociale, che influenzano la qualità di vita dei pazienti durante un trattamento, quantificati con questionari ad hoc, standardizzati.
«Tali dati», dichiara Saverio Cinieri, presidente Aiom, «aggiungono preziose informazioni ai dati clinici, ampliando le conoscenze sul valore della terapia a beneficio anche del medico/oncologo».
Aggiunge Massimo Di Maio, segretario Aiom: «Le aziende farmaceutiche hanno recepito l’invito degli enti regolatori a includere la qualità di vita tra gli endpoint, non altrettanto la ricerca accademica e indipendente meno focalizzata a considerare questo aspetto mentre vari documenti prodotti dall’agenzia regolatoria americana e quella europea esplicitano la necessità di produrre dati di PRO a sostegno di un trattamento quando si voglia sviluppare un farmaco a scopo registrativo, ma nell’ultimo quinquennio la percentuale di sperimentazioni che pubblica i PRO è sempre più bassa e insufficiente».
Studi clinici vs pratica clinica
Pari attenzione va posta a studi di real world, i cui dati non sempre sono coincidenti con i risultati di studi clinici.
«La real world evidence offre diverse opportunità», sottolinea Giuseppe Curigliano, membro del Direttivo Nazionale Aiom, «per esempio, permette di descrivere i risultati di un farmaco in una popolazione eterogenea nella pratica clinica quotidiana, integrando i risultati degli studi clinici condotti prima dell’autorizzazione all’impiego nella pratica clinica stessa. oppure consentono di focalizzarsi su popolazioni speciali, spesso sottorappresentate negli studi registrativi, e di produrre evidenze in stadi di malattia per i quali non esistono trial randomizzati e controllati».
Anche su questo fronte, tuttavia, esistono attuali gap, a partire dalla non uniformità. «Per ottimizzare la conduzione degli studi di real world», prosegue Cinieri, «è necessaria una piattaforma universale che consenta la condivisione dei dati della pratica clinica quotidiana in tempo reale.
Oggi non disponiamo di sistemi di cartelle cliniche elettroniche uniformi, prerequisito per gestire in maniera efficiente queste informazioni su tutto il territorio. Occorre che tutti gli ospedali parlino la stessa lingua e utilizzino al fine di poter estrarre questi dati velocemente, a esclusivo beneficio dei pazienti».
Il valore aggiunto
«La disponibilità di dati adeguati», conclude Francesco Perrone, presidente eletto Aiom, «può avere ricadute positive anche dal punto di vista regolatorio, riducendo le discussioni sulla rimborsabilità e rispettando la reale efficacia del farmaco, che potrebbe essere anche superiore a quella evidenziata nei primi studi registrativi.
Serve una ricerca clinica indipendente più forte, promossa dal SSN, capace di rispondere a questi bisogni e che si aggiunga agli studi profit, condotti dalle aziende farmaceutiche. Oggi, però, in Italia solo un quinto degli studi sui nuovi farmaci è indipendente».