Nel mondo il tumore all’esofago occupa l’ottavo posto per incidenza e il sesto per letalità. Nel 2020 si sono contati circa 604.100 nuovi casi globali, dei quali 2.400 diagnosticati in Italia. Si tratta di una neoplasia che colpisce soprattutto gli uomini e per la quale la sopravvivenza a 5 anni è bassa, pari al 12% nei maschi e al 17% nelle femmine. La prevenzione a la diagnosi precoce sono quindi fondamentali.
Tra i fattori di rischio che possono portare a formazione tumorale c’è anche l’infiammazione cronica e, in particolare, l’esofagite peptica, dovuta al reflusso di succhi gastrici dallo stomaco all’esofago.
L’8%-20% dei malati di reflusso gastroesofageo sviluppano, nel tempo, alterazioni alla mucosa esofagea classificabili in una condizione precancerosa, chiamata esofago di Barrett. Si stima che ne soffrano fino a 1 adulto su 5. L’evoluzione successiva è l’adenocarcinoma esofageo che rappresenta il 30% di tutti i tumori in questa sede.
Dal punto di vista della prevenzione è quindi importante individuare i soggetti affetti da reflusso gastroesofageo per sottoporli alle cure farmacologiche del caso e monitorarne il decorso. Occorre anche lavorare sull’aderenza terapeutica: la mancanza di cure è infatti una delle cause principali dell’esofago di Barrett.
Quando, però, la lesione è già presente, cosa si può fare? Una delle strategie terapeutiche possibili è l’intervento chirurgico per rimuovere la mucosa patologica, effettuato in endoscopia.
Esiste, tuttavia, una nuova tecnica, che sfrutta la crioablazione.
La Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs di Roma è il primo ospedale italiano ad averla utilizzata.
Spiega Cristiano Spada, direttore della UOC di Endoscopia Digestiva Chirurgica dell’ospedale romano e professore ordinario di Gastroenterologia all’Università Cattolica, campus di Roma: “il trattamento endoscopico di crioablazione si effettua nel corso di una normale gastroscopia, introducendo nell’esofago, attraverso l’endoscopio, uno speciale catetere che ha sulla punta un palloncino dal quale si eroga protossido di azoto liquido in forma gassosa; questo determina la formazione di cristalli di ghiaccio all’interno delle cellule, andando così a ischemizzare e dunque a eliminare il tessuto patologico. È un trattamento innovativo, utilizzato per la prima volta in Italia presso il nostro Centro. I risultati dimostrano che è sicuro, efficace nel ‘cancellare’ la displasia e la metaplasia e soprattutto molto ben tollerato dai pazienti”.
La crioablazione endoscopica va quindi ad aggiungersi ai trattamenti disponibili per trattare l’esofago di Barrett, che però, è bene precisare, non sempre richiede di un intervento: è importante, quindi, valutare attentamente il paziente per individuare il percorso terapeutico più adeguato alla sua condizione. Inoltre, come spesso avviene, prima di utilizzare la crioablazione si possono sfruttare altre strategie, come l’ablazione a radiofrequenza (RFA).
Sottolinea Silvia Pecere, gastroenterologa della UOC di Endoscopia Digestiva Chirurgica del Gemelli: “la RFA è una delle opzioni più comunemente utilizzate per il trattamento endoscopico di un paziente con esofago di Barrett. Le radiofrequenze erogano energia termica, che rimuove con il calore le aree di tessuto patologico; questo consente la ricrescita di normale tessuto esofageo che si va a sostituire a quello patologico eliminato”.
Purtroppo, non tutti i pazienti rispondono bene alla RFA: in questi casi si può pensare di applicare la crioablazione.