Amiloidosi cardiaca, cambio di paradigma nell’approccio diagnostico-terapeutico

Arrivare a una diagnosi corretta spesso non è semplice, eppure è cruciale in relazione alla rapida progressione della patologia e all’esito potenzialmente letale. Parliamo dell’amiloidosi cardiaca, malattia rara, spesso sottodiagnosticata, con manifestazioni differenti dipendenti dalla tipologia clinica, la forma TTR AL, dovuta alla mutazione del gene da transtiretina, e la wild type TTR (o SSA), forma acquisita per cause ancora ignote associata a depositi di TTR non mutata. Entrambe da monitorare e attenzionare con percorsi e approcci terapeutici mirati. La ricerca ha messo a punto nuove opportunità di cura, ma gli unmet needs sono ancora numerosi.

Identikit delle amiloidosi cardiache

Sono un gruppo definito di malattie, all’incirca una trentina, in alcuni casi ereditarie, accomunate da un tratto distintivo: l’accumulo dannoso nell’organismo di sostanza amiloide. Questa si presenta in forma di piccole fibrille, composta da proteine che, per cause diverse, si sviluppano in maniera anomala.

«Esistono diverse forme di amiloidosi», spiega Francesco Cappelli, cardiologo, CRR Toscano per lo studio e la cura delle amiloidosi, AOU Careggi, Firenze, «ognuna delle quali è dovuta a una specifica proteina: si tratta di patologie multi-sistemiche, che colpiscono numerosi organi e tessuti come reni, apparato gastrointestinale, fegato, cute, nervi e occhi. Uno degli organi principalmente coinvolti è il cuore, che sviluppa una cardiopatia infiltrativa e uno scompenso cardiaco progressivo, da cui la definizione di amiloidosi cardiaca».

Nello specifico la forma ereditaria, causata da mutazioni del gene TTR, si manifesta più precocemente, a partire dai 50 anni, mentre la forma acquisita – l’amiloidosi sistemica senile wild type TTR dovuta a depositi di TTR non mutata – è tipica di soggetti più anziani, tra 60 e 80 anni.

«È possibile che soprattutto in assenza di un esordio anticipato», dichiara Marco Canepa, Università degli Studi di Genova e Irccs Policlinico San Martino, «e data la sintomatologia aspecifica, la malattia venga ancora confusa con altre e dunque sottodiagnosticata.

I pazienti in media vivono da 2 a 4 anni dopo la diagnosi, in base alla loro condizione al momento del riconoscimento della patologia: è opportuno, dunque, garantire una presa in carico olistica, tempestiva, gestita da un team multidisciplinare in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale. Ovvero con percorsi in grado di garantire al paziente il più corretto approccio diagnostico-terapeutico indipendentemente dall’area di residenza».

Cambio di paradigma

Prima lo strumento diagnostico era la biopsia cardiaca, complessa, delicata, invasiva. Oggi è possibile avvalersi di un esame del sangue che ricerca e escluda la presenza di specifiche proteine anticorpali depositate nell’organismo che favoriscono l’insorgenza di malattia e in caso di positività confermare la diagnosi con una scintigrafia cardiaca.

Approccio, meno invasivo, di cui studi clinici anche italiani hanno attestato l’efficacia, arrivando a diagnosticare, per esempio, su 5 mila pazienti, poi ridotti a 1.500 e successivamente a 217 più suggestivi per malattia, 60 casi di amiloidosi di diversa forma, poi avviati a approcci diagnostici e terapeuti mirati.

Obiettivo è definire il percorso più rapido e vantaggioso per intercettare pazienti con malattia non prevedibile (non ereditaria), cioè con amiloidosi cardiaca non mutata, nella forma wild type, ma con segni “premonitori” come una insufficienza cardiaca o un pregresso interessamento di tessuti sinoviali, con età media di 73 anni nei quali la risposta terapeutica è di elevata efficacia.

«Da diversi anni», precisa Giuseppe Palmiero, UOC Cardiologia, Ospedale dei Colli Monaldi di Napoli, «la forma di amiloidosi AL viene trattata con terapie gran parte delle quali traslate da altre malattie ematologiche simili come le discrasie plasmacellulari.
Da febbraio 2022 disponiamo anche di una terapia per la forma Wild Type, ovvero uno stabilizzatore del tetramero che aumenta le chance di sopravvivenza e migliore qualità di vita».

Inoltre, alcuni trattamenti per la forma di TTR neurologica potranno essere traslati anche alla forma cardiologica ed altri nuovi farmaci sono in arrivo.

Costruire un early dialogue

Per arrivare a questo obiettivo diagnostico-terapeutico, efficace e tempestivo, occorre disporre e organizzare un sistema Hub&Spoke, con centri specializzati e professionisti di elevata expertise, concentrando le competenze in pochi centri di riferimento, all’interno di in un network ben collegato: una rete tra Coordinamenti Regionali e associazioni di pazienti, per la condivisione delle best practices per migliorare e uniformare la presa in carico, strutturare le diverse informazioni e risolvere le criticità.

«I Centri di Coordinamento regionali», aggiunge Giuseppe Palmiero, UOC Cardiologia, Ospedale dei Colli Monaldi, Napoli, «grazie ai codici di esenzione, riescono a raccogliere informazioni in merito al numero complessivo di persone con amiloidosi presenti nella Regione. Tuttavia questo dato non tiene conto dei pazienti che vengono seguiti a livello extra-regionale e non può essere considerato un valore estremamente preciso. Proprio per questa ragione, strumenti come i registri nazionali e regionali o i codici di esenzione dovrebbero poter comunicare tra loro; anche in questo senso è necessario lavorare con l’obiettivo di consolidare e intensificare la collaborazione tra i Centri di Coordinamento, le associazioni di pazienti e i Centri di riferimento». E naturalmente le istituzioni.

Francesca Morelli