Arriva in Italia zanubrutinib per la macroglobulinemia di Waldenström

«La macroglobulinemia di Waldenström (WM) è una malattia linfoproliferativa relativamente rara e solitamente a lenta progressione, caratterizzata dall’infiltrazione del midollo osseo da parte di linfociti, plasmacellule e linfoplasmociti che secernono una proteina monoclonale di tipo IgM nel siero».
Lo spiega Marzia Varettoni, dirigente medico, Dipartimento di Ematologia e Oncologia, Fondazione Irccs Policlinico San Matteo.

«Rappresenta circa il 2% di tutti i linfomi non Hodgkin (tumori maligni del sistema linfatico) e si colloca all’interno della nomenclatura più generica tra i linfomi indolenti. Colpisce principalmente gli anziani, ma in letteratura e nella pratica clinica gli esperti riportano casi anche in pazienti più giovani.
Dopo la diagnosi di solito evolve lentamente localizzandosi prevalentemente nel midollo osseo, ma possono essere coinvolti anche i linfonodi e la milza», aggiunge Varettoni.

Negli Stati Uniti 1000-1500 persone ricevono ogni anno una diagnosi di WM. In Italia i pazienti che ne sono colpiti sono circa 3000 complessivamente, con una incidenza di circa 250-300 nuove diagnosi all’anno.
«In Europa il tasso di incidenza stimato della WM e di circa 7 su un milione negli uomini e 4 su un milione nelle donne».

I sintomi più comuni sono debolezza, perdita di appetito, febbre, sudorazione, perdita di peso e neuropatia. Sintomi meno comuni sono l’ingrossamento dei linfonodi, l’addome gonfio, emorragie o problemi cardiaci. Il tasso di sopravvivenza a 5 anni del 78% circa.

La WM inizia nei linfociti B, un tipo di globuli bianchi coinvolto nella risposta del sistema immunitario. Se non diagnosticata e non trattata la patologia può progredire e portare a un accumulo di proteine che interrompono il normale sviluppo delle cellule del sangue nel midollo osseo, con la conseguente probabilità della comparsa di sintomi.

Oggi è disponibile anche in Italia a carico del Sistema sanitario nazionale zanubrutinib, un inibitore della tirosino-chinasi di Bruton (BTK) di ultima generazione molto selettivo, che si è dimostrato superiore al suo predecessore ibrutinib in un ampio studio di fase 3, prospettico, randomizzato in aperto su pazienti in recidiva, refrattari o naive al trattamento.

L’approvazione, infatti, si fonda proprio sui risultati di efficacia e sicurezza dello studio ASPEN, che ha confrontato zanubrutinib con ibrutinib in modo diretto. Gli inibitori della BTK bloccano le proteine che ordinano alle cellule anomale di crescere.

La dispensazione è ospedaliera (fascia H), ma l’assunzione da parte del paziente può avvenire tranquillamente a casa perché si tratta di una forma farmaceutica in capsule per uso orale. La posologia è indipendente dal peso ed è di due volte al giorno, ritmo che consente di ottimizzare la biodisponibilità e l’efficacia della molecola.

Il nuovo farmaco è riservato ai pazienti adulti che hanno ricevuto almeno una precedente terapia tra quelle disponibili, ma può essere impiegato come trattamento di prima linea nei pazienti che non possono utilizzare la chemio-immunoterapia perché non sono idonei per motivi clinici.

«L’approvazione di zanubrutinib offre un’importante nuova opzione terapeutica anche ai pazienti italiani», afferma Pier Luigi Zinzani, professore ordinario Istituto di Ematologia Seragnoli dell’Università di Bologna. «Si tratta di una molecola innovativa che può portare a una risposta profonda e duratura con una migliore tollerabilità rispetto ai trattamenti precedenti».

Per la molecola si aprono prospettive interessanti per la terapia di varie altre forme tumorali maligne più diffuse nella popolazione che coinvolgono sempre i linfociti B, come la leucemia linfatica cronica (CLL) e il linfoma della zona marginale (MZL). La ricerca, infatti, si sta snodando nel mondo con un ampio programma clinico per valutare l’impiego di zanubrutinib sia da solo sia in associazione per altre patologie oncologiche meno rare.

Elena Mattioli