Carcinoma prostatico metastatico: scoperto un nuovo biomarcatore

I tumori non sono tutti uguali: alcuni sono più aggressivi e resistenti alle cure rispetto ad altri. Ciò è vero anche per i tumori alla prostata, i più diffusi nel sesso maschile: anche se in media hanno alte percentuali di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi se in stadio localizzato, esistono forme di tumore che si ripresentano in modo molto più aggressivo dopo la prima fase di trattamento e sono decisamente più resistenti dei primi.
Questi portano la sopravvivenza a 2 anni dalla nuova diagnosi.

I risultati di uno studio internazionale (“Plasma Androgen Receptor and Docetaxel for Metastatic Castration-resistant Prostate Cancer”. Conteduca, Vincenza et al. European Urology) fa però sperare che in futuro trattare queste recidive potrà essere più semplice ed efficace.
Più nel dettaglio, hanno partecipato l’Istituto Scientifico Romagnolo per lo Studio e la Cura dei Tumori (IRST) Irccs di Meldola (Forlì-Cesena), l’Unità di Ricerca Clinica sul Cancro alla Prostata dello Spanish National Cancer Research Center (CNIO) a Madrid e l’UCL Cancer Institute di Londra.
Lo studio ha permesso di individuare un biomarcatore presente nel DNA capace di pronosticare la risposta alle cure di questa forma tumorale: il gene recettore degli androgeni (AR).

Al momento lo studio è sottoposto a nuovi studi di validazione per trovare il modo migliore di usare il marcatore nella pratica clinica.
Un vantaggio è che il biomarcatore AR può essere individuato tramite una biopsia liquida, quindi con un semplice prelievo ematico, senza dover sottoporre i pazienti a biopsia.

Essenziale è il ruolo della bioinformatica in questo contesto, perché permette di calcolare la frazione di DNA tumorale circolante sul totale del DNA libero presente nel plasma. E il numero di copie AR viene misurato solo sulla frazione di DNA tumorale. Maggiore è il numero di queste copie di biomarcatore e peggiore è la risposta del paziente alle cure tradizionalmente utilizzate in clinica.

Ugo De Giorgi

La ricerca ha inoltre permesso di dividere i pazienti con questa forma tumorale in due gruppi: «abbiamo potuto dimostrare», illustra il dottore Ugo De Giorgi, responsabile del Gruppo Uro-Ginecologico (IRST) IRCCS che ha condotto lo studio per l’Italia, «che nei pazienti senza l’amplificazione del recettore degli androgeni nel plasma sarebbe più indicata la terapia ormonale, con risultati significativi in termini di efficacia e qualità della vita.
Al contrario, nei pazienti con tale alterazione genetica (circa il 30-40% dei casi) sarebbe più opportuno intraprendere la chemioterapia con una risposta più efficace rispetto al trattamento con terapie ormonali».

Lo studio evidenzia, inoltre, l’esigenza di trovare terapie più efficaci per quanti hanno una forte amplificazione del biomarcatore.
Conclude il dottor De Giorgi: «finora non esistevano studi comparativi tra i due approcci terapeutici. La scelta del trattamento per questo tipo di tumore si basava unicamente sulla sua biologia, sulle caratteristiche cliniche e sulla preferenza da parte del paziente debitamente informato. Questo studio rappresenta il primo in cui è stato effettuato un confronto diretto tra le varie opzioni terapeutiche, dimostrando l’utilità di un biomarcatore circolante nella personalizzazione del trattamento per pazienti affetti da tumore della prostata resistente alla castrazione».

Stefania Somaré