L’Ospedale Maggiore di Cremona (credit: ASST Cremona)

In questo periodo di emergenza, la testimonianza dei sanitari che operano negli ospedali lombardi in prima linea costituisce un importantissimo contributo per comprendere come fronteggiare al meglio un’epidemia imprevista.

Abbiamo chiesto al dott. Lorenzo Cammelli, direttore medico dell’Ospedale Maggiore di Cremona, quali azioni sono state messe in campo dall’esordio dell’epidemia.

Lorenzo Cammelli, ASST Cremona: «il lock down inizia a dare i frutti attesi almeno in termini di riduzione del numero di nuovi casi gravi: questo è un fatto senz’altro positivo. Anche se l’epidemia ha colpito aree molto popolate, la speranza è che nelle grandi città non si verifichi l’escalation che abbiamo osservato in provincia. È perciò indispensabile non abbassare il livello d’attenzione e rispettare le misure decise dalle autorità, in modo da evitare altre situazioni straordinarie».

«Siamo ormai alla sesta settimana da quando – pochi giorni dopo il primo paziente Covid-19 diagnosticato all’Ospedale di Codogno – abbiamo registrato la crescita vertiginosa dei casi.

Inizialmente si trattava soprattutto di persone provenienti dalla provincia di Lodi, con sintomi lievi o entrate in contatto con persone con sintomi.
In tempi molto brevi abbiamo attivato una postazione di pre-triage esterna – una tenda messa a disposizione della Protezione Civile, per il pre-triage delle persone in ingresso al pronto soccorso – definendo percorsi distinti per pazienti Covid-19 e no-Covid-19, e abbiamo iniziato a potenziare i servizi interni all’ospedale.

Grazie al trasferimento in altri ospedali dei pazienti ricoverati con altre patologie e che potevano essere trasportati, il reparto di Malattie Infettive – ospitato in una palazzina distaccata dal resto dell’ospedale – è stato destinato ai pazienti Covid-19.
Abbiamo inizialmente raddoppiato il numero dei letti per camera e, nella stessa palazzina, abbiamo attivato ulteriori posti letto in un reparto prima non in funzione, portando la capacità da 12 posti letto a 44 posti letto.

Poi, con il rapido peggioramento della situazione, progressivamente l’ospedale di Cremona è diventato quasi completamente Covid-19.

L’ospedale da campo allestito dalla ONG Samaritan’s Purse nel parcheggio antistante l’ospedale

Per esempio, a fronte di un reparto di Terapia Intensiva con 8 posti letto oggi abbiamo più di 50 pazienti intubati, ospitati anche nella recovery room del Blocco Operatorio, in Neurochirurgia e nell’Unità Coronarica.
I soli reparti in funzione per altre specialità sono Ostetricia, Terapia Intensiva Neonatale, Pediatria, Oncologia ed Ematologia.

Considerando anche il presidio ospedaliero di Oglio Po, complessivamente oggi l’ASST di Cremona mette a disposizione circa 650 posti letto Covid-19. Attualmente siamo ancora in emergenza, ma la situazione sembra essersi stabilizzata: il numero dei nuovi ricoveri è praticamente pari al totale delle dimissioni (pazienti Covid-19 guariti) e dei trasferimenti (pazienti Covid-19 in cura) trasferiti in altri ospedali o strutture private».

Cura domiciliare per sintomatologie lievi

Se si potesse “riavvolgere il nastro”, quali altre azioni si sarebbero potute intraprendere?

«Prima del caso di Codogno, nel Pronto Soccorso seguivamo il protocollo standard che, durante l’anamnesi, prevedeva alcune domande circa la provenienza dalla Cina o il contatto con chi vi era stato.
Purtroppo, abbiamo poi verificato che l’infezione si era propagata rapidamente, in modo da non permetterci di individuare per tempo i casi sospetti anche perché, nella grande maggioranza, i sintomi erano quelli di una normale influenza.

I primi pazienti erano prevalentemente anziani, ma nel tempo abbiamo ricoverato anche persone via via meno anziane e a seguire anche giovani, alcuni dei quali in terapia intensiva: proprio quei reparti sono stati i primi ad andare in crisi.
Con il senno di poi avremmo potuto sicuramente fare le cose in modo diverso, ma non era immaginabile l’impatto della pandemia.

Il problema principale è consistito nell’accesso praticamente contemporaneo di un altissimo numero di persone. Purtroppo, il fenomeno è stato tale per cui le previsioni e le soluzioni messe in campo il giorno prima – anche le più drastiche – erano superate il giorno dopo dall’evolversi della situazione.

Probabilmente abbiamo pagato la decisione iniziale di ricoverare i pazienti positivi, anche se non presentavano sintomi gravi. Passata la fase più acuta, anche la somministrazione dell’ossigeno con ventilazione non invasiva si sta rivelando cruciale per il decorso favorevole della patologia.
In tutti gli altri casi sarebbe stato meglio far rientrare i pazienti a casa, in modo da non sovraccaricare gli ospedali, mettendo in atto opportune modalità di cura domiciliari.

Questo approccio avrebbe anche ridotto la diffusione del contagio fra il personale sanitario.
Posso confermare che tutti i colleghi hanno dato e stanno dando il massimo, ma un medico o un infermiere positivi devono necessariamente fermarsi e, anche se fossero in grado di riprendere l’attività, devono attendere l’esito negativo di un doppio tampone per non essere a loro volta causa di contagio.
Di conseguenza è cresciuta notevolmente la mole di lavoro per chi era ed è ancora operativo.
Fortunatamente siamo stati aiutati dall’ospedale da campo allestito dalla ONG statunitense Samaritan’s Purse.

Anche le procedure amministrative per l’approvvigionamento di materiali e apparecchiature sono state velocizzate rispetto a prima dell’inizio dell’epidemia.
Il problema si è però riversato sui fornitori che, spesso, non disponevano di scorte adeguate a fronteggiare l’incremento della domanda».

Giuseppe La Franca, architetto