Diagnosticare il Parkinson agli esordi con test ELISA

Un target molecolare potrebbe indicare le persone malate e stratificare la popolazione in base al rischio di sviluppare la malattia. Il tutto usando un test già presente nei laboratori ospedalieri.

Come molte altre patologie neurodegenerative, la malattia di Parkinson inizia a manifestare i suoi sintomi anni dopo il suo esordio a livello del sistema nervoso centrale. La medicina stima questo periodo di latenza tra 5 e 6 anni.
Le aree del cervello implicate sono i nuclei della base, in particolare il caudato, il putamen e il pallido.

In questi centri, che partecipano tra le altre cose alla corretta esecuzione dei movimenti, si trova la substantia nigra, i cui neuroni producono dopamina che, a sua volta, dà informazioni motorie ad altri neuroni del cervello.

Sono proprio i neuroni della substantia nigra i primi a morire a causa della patologia: di solito, alla comparsa dei sintomi e all’inizio della fase clinica ne è già degenerato il 50-60%.
Ciò comporta un calo consistente di dopamina associato al Parkinson e tutti i processi di auto-intossicazione che portano alla sua graduale diffusione nel cervello.

Data la quantità di substantia nigra persa a questo stadio, i percorsi terapeutici possono solo cercare di rallentare la progressione del Parkinson, ma al momento non esiste una cura.

Xinnan Wang, neurochirurgo e autrice dello studio (Norbert von der Groeben/Stanford School of Medicine)

Ricercatori nel mondo stanno indagando le cause scatenanti la patologia, non ancora chiare, e il modo di individuarla fin dal primo esordio, in modo da potere iniziare i trattamenti prima che i sintomi diventino evidenti.
Tra questi, la dottoressa Xinnan Wang, della Scuola di Medicina dell’Università di Stanford, in California, da anni lavora con il suo team per individuare potenziali target diagnostici.
Le ultime ricerche sembrano dare frutti interessanti.

Il target individuato è una molecola che lavora con i mitocondri. Indagando il ruolo dei mitocondri nelle origini del Parkinson, la dottoressa Wang ha individuato una molecola interessante: Miro1, codificata dal gene RHOT1 (cromosoma 17).
Questa proteina è presente in tutte le cellule, in particolare sulla superficie dei mitocondri, dove favorisce il loro movimento lungo i microtubuli cellulari, permettendo l’aggancio degli organelli alle proteine motrici KIF5.
Che i mitocondri fossero in qualche modo coinvolti nell’origine del Parkinson è noto.

I neuroni dopaminergici della substantia nigra sono tra i più energivori del sistema nervoso e quindi usano molto i mitocondri che sono le centrali energetiche di una cellula.
Un mitocondrio che lavora a pieno regime, però, produce anche molti radicali liberi e finisce il proprio ciclo vitale rapidamente.
In una cellula sana questo mitocondrio verrebbe staccato dai microtubuli per essere poi digerito dalla cellula e sostituito con un organello nuovo.

Il team della dottoressa Wang ha dimostrato che nelle cellule dei malati di Parkinson questo meccanismo è difettoso.

«I mitocondri rovinati restano attaccati ai microtubuli perché Miro1 non si stacca dalla loro superficie», spiega Wang. «I neuroni resterebbero quindi senza energia, il che li porterebbe alla morte«.

Il difetto funzionale di Miro1 descritto era stato scoperto in una precedente ricerca dello stesso team nel 2016.
In quel caso, come in questo, il difetto è risultato presente sia nei pazienti con un Parkinson familiare, pari al 5-10% della popolazione totale dei malati, sia nei casi sporadici (la maggioranza).
Questa nuova ricerca ha permesso di identificare Miro1 come target per la diagnosi della malattia di Parkinson.

Lo studio

Wang e il suo team hanno studiato l’espressione della proteina Miro1 in 83 pazienti parkinsoniani, 5 pazienti ad alto rischio di sviluppare la patologia ma ancora senza sintomi, scelti perché parenti stretti di pazienti con Parkinson, 22 pazienti con altre diagnosi di “disordine del movimento”, tra cui corea di Huntington e Alzheimer, e 52 soggetti sani di controllo.

«Siamo partiti dal prelievo di alcuni fibroblasti dalla cute di ognuno dei partecipanti», ha affermato la Wang. «Un difetto molecolare di norma è ubiquitario, anche se si manifesta solo in una parte del corpo.
Per esempio, un paziente che presenta una mutazione LRRK2, associata al Parkinson, la presenta anche a livello delle cellule cutanee. Similmente, pensiamo che il difetto di Miro 1 sia presente tanto nei fibroblasti quanto nelle cellule del sistema nervoso. Per fortuna, i fibroblasti riescono a vivere anche con questo difetto».

Poter prelevare dei fibroblasti per fare un test diagnostico rende la procedura molto più semplice e non invasiva nei confronti dei potenziali pazienti.
Prelevate le cellule cutanee, i ricercatori le hanno coltivate in piastre Petri per poi sottoporle a un processo stressante per mettere in difficoltà i mitocondri e richiederne la sostituzione.
A questo punto, i mitocondri sono stati sottoposti a un processo di depolarizzazione di membrana e quindi frazionati.
Il passaggio finale è stato la ricerca della presenza di Miro1.

«Abbiamo osservato che il difetto di Miro1 è presente solo nel 94% dei pazienti con Parkinson e nei 5 soggetti ad alto rischio di sviluppare la malattia», riprende Wang. «I soggetti sani di controllo e quelli con altri disordini del movimento non hanno questo difetto».
Ciò dimostra che questa molecola può essere un ottimo target diagnostico.

Il tool diagnostico

Lo studio presentato è molto recente: di norma si dovrebbe attendere del tempo perché il corretto tool diagnostico venga sviluppato e commercializzato. Non in questo caso.

«Per individuare Miro1 e quindi verificare se le persone con alcune particolari mutazioni possono o meno essere a rischio di sviluppare il Parkinson basta un semplice test ELISA, già utilizzato di routine nei laboratori clinici per individuare la presenza di patologie o particolari proteine. Ecco quindi che i ricercatori di un ospedale potrebbero già testare i propri pazienti: basta utilizzare il protocollo che abbiamo presentato nello studio da poco uscito. Ovviamente, stiamo lavorando comunque per rendere il metodo più veloce e conveniente, ma per questo occorrerà del tempo.

Penso davvero che questo test possa migliorare di molto l’approccio alla malattia di Parkinson. Prima di tutto, soprattutto agli stadi clinici iniziali, vi sono spesso casi di diagnosi errata, dovuti per lo più a manifestazioni simili tra le diverse patologie neurologiche. In questo modo, si avrebbe invece un tool per avere certezza di diagnosi e poter partire da subito con le terapie, scegliendo le più adeguate. È anche possibile che il 6% di malati di Parkinson che sono risultati negativi nel nostro studio fossero proprio dei pazienti con diagnosi errata».

L’uso del test da solo non basta: deve sempre essere inserito in un processo di diagnosi combinata che preveda anche l’osservazione degli aspetti neurologici e valutazioni genetiche.

«C’è inoltre la possibilità che esistano altre patologie positive al difetto di Miro: anche queste, o meglio chi ne è affetto, potrebbe beneficiare dal test».

Accanto al test diagnostico, il team della Wang ha anche identificato molecole capaci di ristabilire il corretto funzionamento di Miro e quindi proteggere dalla malattia.

La ricerca continua

Ora che Miro1 può essere considerato un target diagnostico, il team della Stanford University continuerà i suoi studi, in particolare stratificando i pazienti positivi al difetto e inserendoli in un nuovo studio clinico per testare potenziali sostanze farmacologiche. Sostanze che in parte sono già state individuate.

«Abbiamo collaborato con l’azienda biotecnologica Atomwise Inc. per analizzare il potenziale farmacologico di 6.835.320 piccole molecole già in commercio con un software dedicato», racconta ancora Wang.

I risultati hanno indicato 11 potenziali alleati terapeutici: tutti identificati per essere in grado di favorire il distacco di Miro1 dai mitocondri.

«Abbiamo chiesto al software di trovare molecole capaci di legarsi a Miro1, ma anche di essere assunte oralmente e di passare la barriera emato-encefalica, per esempio.

Ulteriori test effettuati su modelli di Parkinson ci hanno portato a scegliere un solo composto, che ora chiamiamo “Miro1 reducer”: lo abbiamo testato sui fibroblasti di un paziente con Parkinson e abbiamo osservato che nelle stesse condizioni dello studio, la presenza della molecola permetteva a Miro1 di degradarsi».

Avere a disposizione una molecola che potenzialmente riesce a eliminare uno dei meccanismi patogenetici del Parkinson potrebbe significare evitarne l’insorgenza nella popolazione ad alto rischio, ma anche sperare che il processo possa riportare equilibrio anche nelle cellule dei pazienti ai primi stadi della malattia.

«Questa è la nostra speranza», sottolinea Wang. Ora servono studi ulteriori per verificarla.

Bibliografia

• Chung-Han Hsieh, Atossa Shaltouki, Ashley E. Gonzalez, Alexandre Bettencourt da Cruz, Lena F. Burbulla, Erica St Lawrence, Birgitt Schüle, Dimitri Krainc, Theo D. Palmer e Xinnan Wang1. Functional Impairment in Miro Degradation and Mitophagy Is a Shared Feature in Familial and Sporadic Parkinson’s Disease. Cell Steam Cell. Volume 19, numero 6 (pagg 709-724), dicembre 2016. Doi: DOI:https://doi.org/10.1016/j.stem.2016.08.002.
• Hsieh et al., Miro1 Marks Parkinson’s Disease Subset and Miro1 Reducer Rescues Neuron Loss in Parkinson’s Models, Cell Metabolism (2019), https://doi.org/10.1016/j.cmet.2019.08.023

Xinnan Wang

Stefania Somaré