Covid 19, scoperti meccanismi che indeboliscono la risposta immunitaria

Come ogni virus emergente, il Sars-CoV-2 è all’attento studio della comunità scientifica, che intende non solo capire come agisce nell’organismo ospite e quali sono i meccanismi che portano alla patologia, ma anche le ragioni della grande varietà di sintomi che determina in chi si ammala e della resistenza di alcuni soggetti.

L’obiettivo del consorzio internazionale Covid Human Genetic Effort è comprendere la base genetica e immunitaria delle tante possibili manifestazioni del Covid-19. Particolare attenzione viene posta alla gravità della patologia che si sviluppa in alcuni soggetti, portandoli non solo in ospedale e terapia intensiva, ma anche alla morte.

Fanno parte di questo consorzio anche alcuni italiani, tra ospedali e dipartimenti universitari: Irccs Ospedale San Raffaele di Milano, Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia, Fondazione Irccs Cà Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, Unità pediatrica dell’Irccs Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna, ASST Spedali Civili di Brescia, Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, Dipartimento pediatrico dell’Ospedale Infermi di Rimini, Istituto Giannina Gaslini, Università di Padova, Università Federico II di Napoli, Università degli Studi di Brescia. Recentemente questo consorzio ha evidenziato il ruolo di alcune alterazioni genetiche e autoimmunità nel favorire lo sviluppo di casi gravi di Covid-19: questi, in particolare, sarebbero responsabili di 1 caso grave ogni 5.

Le scoperte sono state presentate in due studi, pubblicati in coppia su Science Immunology e coordinati da Jean Laurent Casanova, della Rockefeller University di New York, e da Luigi Notarangelo e Helen Su, entrambi del National Institute of Allergy and Infectious Diseases di Bethesda, nel Maryland. I due studi presentano situazioni accomunate dal fatto di interferire nella corretta produzione di Interferone I.

Nel primo studio ci si sofferma su una alterazione genetica recessiva presente sul cromosoma X, in particolare a livello del gene TLR7, che sarebbe responsabile per l’1% delle forme gravi da Covid-19 in pazienti maschi under 60, tale mutazione spiegherebbe forse anche perché le forme gravi di questa patologia colpiscono prevalentemente gli uomini, con una probabilità una volta e mezzo maggiore delle donne.

Il secondo su alcuni auto-anticorpi presenti in un’ampia fascia di soggetti che colpirebbero proprio l’Interferone I, riducendone l’attività. Questa seconda alterazione, in particolare, sarebbe nel complesso responsabile del 20% delle morti da Covid-19, indipendentemente dall’età del soggetto. In entrambi i casi, l’Interferone I non viene prodotto a sufficienza, il che non consente al Sistema Immunitario di rispondere alle prime fasi dell’infezione con la sua risposta innata e aspecifica, lasciando tempo al virus di colpire l’organismo.

Secondo i dati analizzati, la presenza di questi auto-anticorpi aumenterebbe con l’età, raggiungendo il 4% della popolazione sopra i 70 anni. Le due scoperte possono avere importanti implicazioni cliniche: usando un test genetico o test per gli anticorpi si potrebbe avere una prognosi più precisa delle condizioni del paziente, di fatto offrendo cure tempestive e mirate, probabilmente somministrando proprio Interferone I nelle prime fasi della malattia.

Inoltre, è chiaro che in soggetti con un difetto nella produzione di Interferone I è tutta la parte innata del Sistema Immunitario a essere carente, il che li rende facili prede di altri virus, noti o emergenti. Esiste infine un’altra implicazione: il plasma iperimmune offerto ai pazienti come terapia dovrebbe essere prima testato per verificare la presenza di auto-anticorpi contro l’Interferone I. Il Dipartimento di Genetica del San Raffaele di Milano ha partecipato a entrambi gli studi citati.

(Lo studio: P. Bastard et al., Sci. Immunol. 10.1126/sciimmunol.abl4340 (2021) // T. Asano et al., Sci. Immunol. 10.1126/sciimmunol.abl4348, 2021)

Stefania Somaré