Il rischio da agenti biologici in ospedale: l’Hiv

Le infezioni ospedaliere sono per definizione un importante problema di sanità pubblica per le gravi ripercussioni sui pazienti e sugli operatori sanitari.
Il virus dell’Hiv, agente responsabile dell’Aids, è un retrovirus del genere lentivirus che dà origine a infezioni croniche scarsamente sensibili alla risposta immunitaria, che evolvono lentamente ma progressivamente e che, se non trattate, possono essere fatali [4]. In base alle conoscenze attuali, l’Hiv è suddiviso nei due ceppi Hiv-1 e Hiv-2: il primo è localizzato in prevalenza in Europa, America e Africa centrale, l’altro si trova per lo più in Africa occidentale e Asia e determina una sindrome clinicamente più moderata rispetto al primo. Per sapere se si è stati contagiati ci si sottopone al test specifico per la ricerca degli anticorpi anti-Hiv, attraverso un normale prelievo di sangue. Il test dell’Hiv identifica la presenza di anticorpi specifici prodotti dall’organismo se entra in contatto con questo virus.

Diagnostica
Anticorpi anti-Hiv: è un’analisi di screening che non inquadra però il “periodo finestra” (da 15 giorni a 6 mesi) perché in questa fase non sono ancora presenti gli anticorpi. Se il risultato è “presente” o “positivo” significa che la persona è venuta a contatto con il virus, ma potrebbe non avere contratto la malattia. Per questo è consigliabile eseguire il test di conferma di Western Blot: se il risultato è “presente” o “positivo” significa che la persona ha contratto la malattia, quindi è infetta e infettante. Questo test conferma la sieropositività e suddivide i vari tipi di anticorpi presenti, il che è importante per stabilire la cura e inquadrare l’evoluzione della malattia.
Test di biologia molecolare: se il risultato è “presente” o “positivo” significa che la persona è venuta a contatto con il virus; questo esame individua la presenza dell’Hiv fin dal “periodo finestra”.
Conteggio dei linfociti CD4 e CD8: è utile per verificare che se ne mantenga l’equilibrio nel sangue, in particolare serve per monitorare l’efficacia della cura.

Valutazione del rischio da esposizione

Numerosi studi hanno permesso di quantificare il rischio di infezione occupazionale negli operatori sanitari a seguito di diverse modalità di esposizione. Il rischio medio d’infezione da Hiv è dello 0.3% in seguito a esposizione a sangue infetto per via percutanea e dello 0,09% per esposizione muco-cutanea. Da uno studio caso-controllo internazionale pubblicato dai Cdc nel 1997 sul New England Journal of Medicine sono emersi alcuni fattori che possono comportare un aumento del rischio fino al 5%:
lesione profonda nell’operatore sanitario;
sangue visibile sul presidio causa della lesione;
paziente-fonte che sia deceduto per Aids entro 60 giorni dall’esposizione;
presidio in precedenza usato in vena o in arteria del paziente-fonte.
Lo Studio Italiano sul Rischio Occupazionale di infezione da Hiv (Siroh) suggerisce che la contaminazione ematica della congiuntiva, l’esposizione a Hiv concentrato (per esempio, in un laboratorio di ricerca o di produzione del virus) e la coinfezione con il virus dell’epatite C possono essere associati a un maggior rischio di trasmissione e sono ulteriori parametri di gravità dell’esposizione. Il rischio connesso alla contaminazione cutanea, sia di cute lesa sia di cute integra, è meno definito.

Profilassi
La profilassi antiretrovirale post esposizione va iniziata il prima possibile, preferibilmente entro 1-4 ore. La profilassi antiretrovirale post esposizione è sconsigliata quando sono trascorse oltre 72 ore dall’esposizione. L’offerta della profilassi antiretrovirale post esposizione oltre le 72 ore (misura che si può paragonare a un trattamento precoce dell’infezione per limitarne la gravità una volta che si è determinata), può essere considerata in casi specifici (esposizioni a rischio elevato di trasmissione quali trasfusioni di sangue o inseminazione artificiale da donatore risultato Hiv positivo) ma non è raccomandata. L’operatore esposto va avvisato di usare precauzioni per prevenire trasmissioni secondarie, soprattutto nelle prime 6-12 settimane dall’esposizione a rischio: uso del profilattico o astensione da rapporti sessuali, non donare sangue, evitare gravidanze, non allattare. Per le esposizioni in cui è prescritta la profilassi antiretrovirale post esposizione, l’operatore esposto deve essere informato su: possibile tossicità farmacologica, necessità del monitoraggio clinico/laboratoristico, possibili interazioni tra farmaci, importanza dell’aderenza al trattamento (8).