Una nuova patologia per la quale non eravamo preparati a livello terapeutico e organizzativo ha avuto modalità di diffusione impegnative per l’impatto sul sistema sanitario anche dal punto di vista organizzativo, logistico e comportamentale sul terreno lavorativo.

Davide Rizzardi

Che cosa abbiamo imparato dal Covid-19? Ne parliamo con Davide Rizzardi, delegato con Procura di Policlinico San Donato, Istituto Galeazzi, Clinica Sant’Ambrogio e Clinica San Siro, che pur stanco, ha una serena convinzione: l’esperienza faticosa, stressante e sfidante maturata fronteggiando l’emergenza Covid è stata decisamente importante, per una crescita di sensibilità metodologica e organizzativa che prelude alla capacità di far fronte oggi in maniera strutturata e coerente al rischio di una seconda ondata.

Dimensioniamo il problema: la parola pandemia a un occhio inesperto risulta sicuramente impattante, perché è capace di attirare l’attenzione e generare una prudenza utile a contenere il rischio di diffusione, ma qui abbiamo anche dei numeri precisi.
Oggi i decessi collegabili a Sars-Cov2 sono circa 35.000, quando “di norma” (se di norma si può parlare…) abbiamo una mortalità nell’ordine delle 8-10.000 persone per ogni influenza “stagionale”, per cui Rizzardi propone di guardare a tutta la vicenda collocandola in un ordine di grandezza abbastanza preciso, dal momento che non possiamo sfuggire dai numeri per stimarne l’impatto sul fronte delle manifestazioni patologiche, sul sistema sanitario a medio-lungo termine e sugli aspetti organizzativi che queste dimensioni comportano.

Sembra un pensiero “manageriale”, che non parla di persone ma di numeri
«Il mio non è un ruolo medico, è un preciso e specifico compito di tutela di aspetti di Salute, igiene, sicurezza e qualità, al fianco di team costituiti da direttori sanitari e amministratori delle cliniche del gruppo San Donato.
Questo compito è stato e rimane decisamente impegnativo, spesso full-time sette giorni su sette per settimane intere nel periodo più delicato, quello fra fine febbraio e metà maggio, ma dobbiamo anche trarre delle lezioni che derivano tanto dalla gestione dell’emergenza quanto dal profilo organizzativo sviluppato per impostare un regime ordinario che tenga conto delle nuove esigenze».

Il lavoro svolto dal punto di vista organizzativo è stato infatti l’aspetto più rilevante e “nascosto” di questo periodo: davanti a una nuova patologia non esistevano conoscenze diagnostiche e modelli di intervento preordinati utili ad affrontare con la tempestività necessaria l’insorgere delle conseguenze della diffusione del virus.
Qualsiasi modello esistente non prendeva in considerazione la necessità di affrontare una malattia che – indipendentemente dai tassi di mortalità – avesse una diffusione così rapida e al contempo una così consistente difficoltà ad individuarne terapie di contrasto.
Vale la pena poi di sottolineare che è davvero difficile stimare quanti siano i morti “per” Coronavirus e quanti quelli “con” Coronavirus, cioè quanto il Sars-Cov2 sia stato un “acceleratore” dell’insorgenza o dello sviluppo di altre patologie piuttosto che una patologia a sé stante.
Una considerazione che ci porta agli inizi della crisi, per capire che cosa ha determinato il pericolo di collasso del sistema delle terapie intensive.

«È innegabile che il sistema abbia sofferto, ma dire che è collassato è scorretto. Esistevano ed esistono dei protocolli di crisis management che da sempre sono in continua elaborazione ed evoluzione, hanno anche un nome e un cognome: si chiamano PEIMAF, Piani di Emergenza Interna di Massimo Afflusso e presiedono la gestione a livello regionale e nelle singole unità di accoglienza e degenza.
Questi protocolli sono attivi e soggetti a revisioni continue di ottimizzazione che li rendono capaci di gestire numerose situazioni, fra le quali anche questa».

Il messaggio mediatico che è passato è stato differente

«Sicuramente lo stress organizzativo è stato fortissimo, ma affermare che tutto sia andato avanti per la sensibilità, la professionalità, l’eroismo di medici e operatori è fare un grande torto a chi ha approntato nuovi protocolli di gestione degli spazi, a chi ha gestito con il massimo impegno l’approvvigionamento di tutto quanto era necessario per lavorare e curare e ha messo la struttura in condizioni di funzionare a ciclo continuo, su una patologia con problematiche specifiche e secondo regole nuove e completamente differenti dal passato».

Nel concreto, per fare un esempio, il lavoro di riorganizzazione svolto su Policlinico San Donato è partito dall’evidenza che la struttura esistente ha una sua connotazione edilizia e infrastrutturale precisa, con complicazioni non indifferenti rispetto alle modalità imposte dai protocolli gestionali dell’emergenza: accessi, strumentazioni tecniche, percorsi operativi.

La disponibilità organizzativa che è il caso di chiamare con il suo nome, elasticità, ha permesso di affrontare la rivoluzione totale dei percorsi di accesso, la ridefinizione di tutta la logistica interna degli approvvigionamenti, la gestione del servizio di pronto soccorso, i comportamenti individuali in sede di spazio terapeutico e nell’ambito di tutte le attività che ruotano attorno alla terapia.

Uno sforzo che possiamo chiamare titanico?

«Sarebbe ricadere in una logica che non amo, quella degli eroismi: quello che ha fatto sì che si sia potuti uscire dalla crisi nelle strutture di Gruppo San Donato è stato un lavoro davvero tenace, quotidiano e allo stesso tempo con una forte impronta metodologica».

Il lavoro di impostazione svolto ha portato ad istituire una serie di figure di gruppo che lavoravano trasversalmente all’applicazione della mole di DPCM, DGR, linee guida ATS che venivano man mano emanati e che era compito di questo team rendere omogeneamente operativi su tutte le unità attive nell’accoglienza e nella terapia, in modo da creare la massima condivisione di esperienze e ottimizzare le iniziative e gli interventi dislocati sui differenti centri di lavoro.

Non solo, sono stati attivati team anche in questo caso non verticali, ma di gruppo che fornissero linee guida operative basate sulla conoscenza delle strutture e sulla modellazione di comportamenti condivisi che tenessero conto delle specificità dei diversi ambienti.
Il lavoro principale è stato svolto dal team dei direttori sanitari coordinati dal supervisore sanitario di Gruppo che hanno ottemperato le indicazioni fornite dagli enti e dalle istituzioni nelle varie fasi che si sono succedute.

Ma intorno proliferava un certo panico: che cosa è successo dal vostro angolo visuale?

«Si è confuso il pericolo con il rischio: il virus Sars-Cov2 è un virus classificato con rischio biologico 2 del tipo Coronavirus paritetico a quello di altri virus influenzali, ma questo “approfondisce” maggiormente la sua incidenza. La malattia è quindi più grave, quindi – se otteniamo il rischio moltiplicando la probabilità di esposizione al pericolo per il danno atteso – è chiaro che il rischio è maggiore dell’influenza a cui siamo abituati.
Quindi non dobbiamo confondere il tema del contenimento del contagio, ottenibile con strumenti preventivi “semplici” come il lavaggio delle mani, l’uso della mascherina e altre istruzioni appunto abbastanza “elementari” con le conseguenze del contagio, più pesanti di qualsiasi influenza sia comparsa all’orizzonte negli ultimi cent’anni. Questo dicono i medici».

E questo ha dato vita a un metodo di impostazione in condizioni di emergenza volto a innalzare l’asticella delle misure prudenziali di contenimento della possibilità di contagio, per ottenere un profilo di minimizzazione del rischio e la sua gestione operativa anche sul fronte dell’impatto organizzativo.

Questo perché la possibilità di curare i malati derivava necessariamente dalla necessità di tutelare al massimo il personale che li curava, con conseguenze globali a partire dalla selezione dei DPI e dal reperimento di mascherine idonee ed efficaci, un lavoro non facile a fronte di un’offerta che era diventata letteralmente caotica e spesso priva dei requisiti formali e sostanziali di idoneità allo scopo.

A questo si è aggiunto un ripensamento totale dell’ospedale, non soltanto per i suoi aspetti di contatto con l’esterno come si diceva prima, ma soprattutto per i suoi percorsi interni, per i flussi di personale, materiali, strumentazione, documentazione.
È stata riprogettata la dinamica di erogazione della prestazione sanitaria, rivedendone tutti i singoli passaggi e aspetti in una modalità “tutto avanti”, per cui ogni cosa – anche la cartella clinica – che tornava in una zona non protetta doveva subire una quarantena e un trattamento sanificante.

«Un lavoro difficilissimo, perché l’ospedale è per sua natura un luogo “ospitale” – commenta Rizzardi – un luogo non segregato, ma aperto, aperto a ricevere pazienti di ogni tipologia patologica e provenienti da contesti assolutamente eterogenei».

Quella a cui non abbiamo assistito, ma che è avvenuta dietro le quinte è stata una vera e propria rivoluzione, in sostanza: la capacità di apprendimento e di evoluzione in continuo di una struttura impostata su una ricettività ampia, i diciannove ospedali del Gruppo San Donato, che ha saputo cambiare la propria dinamica in una forte consapevolezza del ruolo assegnato dal sistema generale e con una precisa conoscenza delle proprie risorse e degli spazi disponibili per incrementarle.

DPI, loro uso, definizione e utilizzo di percorsi, sanificazioni funzionali e sistemiche si sono inserite come tasselli in un nuovo codice di procedura sanitaria che ha permesso di ottenere risultati di sicuro rilievo per la contingenza, ma non solo, anche per definire una nuova elasticità utile ad affrontare il ripresentarsi delle condizioni d’emergenza che si erano verificate.

Il tutto accompagnato, anzi sinergizzato, con una formazione degli addetti tale da dare massima efficacia alle misure strutturali adottate, formazione che – erogata in formato digitale – è diventata un capitale di esperienza e di qualificazione delle risorse umane a disposizione di tutti, vecchi e nuovi collaboratori, dipendenti e addetti.

«Abbiamo creato una nuova organizzazione dell’ospedale, che continua a cambiare di giorno in giorno e comunque non sarà mai più quella di prima, sono state riviste le agende con dilatazione dei tempi di ricezione, sono rimaste pratiche vincolanti e severe di filtraggio, abbiamo portato le regole operative di risanamento degli ambienti post presenza di un infetto, facendole diventare un procedimento standard in qualsiasi ambiente e mettendole in sintonia con le condizioni di conoscenza delle modalità di contagio del Sars-Cov2».

Il tutto ha comportato un impegno anche su un aspetto infrastrutturale che è stato sottolineato di recente nel Decalogo degli Ospedali Resilienti, firmato da Stefano Capolongo, fra i massimi esperti della materia e titolare della cattedra di Hospital Design al Politecnico di Milano: il risanamento ha coinvolto infatti tanto l’ambiente confinato quanto l’impiantistica aeraulica al servizio dello stesso, con aspetti di igienizzazione dettagliati e scelte operative effettuate sulla base e sotto la supervisione dei direttori sanitari degli Ospedali del Gruppo.
Questa procedura ha determinato che per riattivare i reparti dedicati ai pazienti Covid in fase di emergenza sia stato necessario un tempo di lavorazione che in alcuni casi è durato fino a quindici giorni, per ottenere il ripristino delle condizioni di utilizzo per altri pazienti con la massima riduzione possibile del rischio di contagio ambientale.

«Tutto questo ci sta conducendo a reimpostare gli standard di sanificazione ambientale, perché quelle procedure che fino a prima del Covid mettevamo in atto in modalità puntuale le stiamo convertendo in investimenti infrastrutturali che dotano in continuo l’ambiente di condizioni sanificate».

Lo dimostra l’acquisto di dispositivi di diffusione di perossido di idrogeno per l’Istituto Galeazzi, un investimento che ha già dotato la struttura di trenta macchine che lavorano H24 alla diffusione di strumenti di contrasto della presenza di virus e batteri e sono dotati di certificazioni.
Trattamenti in continuo che sono associati a interventi più radicali e periodici effettuati con igienizzazione per l’asportazione di biofilm.

«Ma si tratta di un’esemplificazione di un metodo, quello di ricavare da questa esperienza, che è ben più di uno stress test o di un’esercitazione, il massimo di competenza organizzativa per affrontare nuove future sfide, a cominciare da una eventuale seconda ondata».

La pandemia ha segnato un punto di svolta? In realtà le procedure e il loro aggiornamento erano già da sempre un terreno di lavoro, in Gruppo San Donato, ma la (ri)presa di coscienza della rilevanza e del peso del rischio microbiologico è forse il dato più importante che deriva organizzativamente da questa esperienza che ha messo a durissima prova il sistema sanitario, tanto da spingere – come è avvenuto in alcune strutture del Gruppo – a predisporre a un utilizzo da terapia intensiva reparti, attraverso interventi strutturali ed
impiantistici immediati, che non erano nati per tale uso preponderante della rete dei gas medicinali.

I modelli organizzativi con tutte le loro implicazioni formali, come per esempio il DVR, e sostanziali, come gli acquisti dei sistemi di erogazione del perossido di idrogeno, sono destinati oggi come ieri, ma forse più di ieri a valle della crisi Covid, a un on-going engineering che deve trovare un giusto equilibrio fra la snellezza decisionale del privato e la proceduralizzazione talvolta eccessivamente rigida del pubblico, per giungere a una nuova normalità che abbia i tempi di reazione utili alla minimizzazione del rischio nel pubblico.

«Oggi siamo preparati ad affrontare la pressione che aveva creato il panico a marzo: i tempi per attivare le procedure di massimo afflusso anche sulla terapia intensiva sono nell’ordine della giornata di lavoro.
La seconda ondata a questo punto per Gruppo San Donato è un problema sanitario, di trattamento diagnostico e terapeutico: sul fronte organizzativo la struttura è capace di affrontare il rischio.

La sanità italiana non avrà la sovracapacità di quella tedesca in particolare sul fronte della terapia intensiva, ma l’efficienza che esprime il sistema oggi si combina a una consapevolezza procedurale che ci pone in condizioni di eccellenza».

Marco Oldrati