Miocardio stampato in 3D? Una sfida per la Stanford University

Le stampanti 3D possono depositare anche materiale biologico, favorendo la produzione di strutture tridimensionali. Ci si chiede a quale dimensione si può arrivare e con quali tempi.
Ingegneri della Stanford University hanno in progetto di stampare un cuore, strato dopo strato. Si tratta di miliardi di cellule da depositare in una struttura tridimensionale ben precisa.

Se si pensasse di farlo posizionando una cellula al secondo ci vorrebbero centinaia di anni per giungere a fine processo. Lo stesso varrebbe se si pensasse di lavorare con mille cellule al secondo.

Eppure, il team di Mark Skylar-Scott, assistente universitario presso la scuola di Ingegneria e Medicina della Stanford University, ha ideato una soluzione: lavorare con gruppi di organoidi, il che significa depositare uno strato sopra l’altro densi gruppi di cellule geneticamente modificate.
«In sostanza», ha spiegato Skylar-Scott «lavoriamo su questi organoidi per definire la struttura su larga scala dell’organo finito».

Con questa tecnica si ottiene una serie di vantaggi. Il primo è che, lavorando con cellule inserite in una sostanza gelatinosa, queste risultano protette.
Bisogna ricordare che, a differenza di altre sostanze che vengono depositate filamento dopo filamento, le cellule sono vive, fragili, delicate e possono morire. Inoltre, rispetto alla tecnica tradizionale che vede depositare le cellule all’interno di uno scaffold tridimensionale poroso, questa permette di ottenere tessuti molto più spessi, come sono quelli cardiaci.

L’obiettivo finale è ottenere tessuto cardiaco impiantabile per piccoli pazienti affetti da patologia cardiaca neonatale.
Skylar-Scott ricorda che quelli cardiaci sono i difetti congeniti più diffusi negli Usa come in altre aree del mondo, Europa inclusa.

«Esistono percorsi terapeutici chirurgici che consentono ai piccoli pazienti di sopravvivere, ma nella maggioranza dei casi devono condurre una vita limitata da restrizioni di carattere fisico e comunque caratterizzata dall’incertezza. Per poterli curare va sostituito il tessuto danneggiato con tessuto sano».

La stampa degli organoidi è solo il primo tassello di questo lavoro: occorre poi convincere le cellule a differenziarsi nelle cellule tipiche del tessuto cardiaco, come cardiomiocoti e cellule dello stroma, e non solo, anche a collaborare tra loro, come una squadra.
Per facilitare questo passaggio, il team di Stanford utilizza cellule geneticamente modificate per rispondere a specifici stimoli chimici.

«Ogni linea cellulare utilizzata viene stimolata da uno specifico farmaco a differenziarsi nel tipo cellulare prestabilito».

I ricercatori hanno pensato anche – e questa è la sfida maggiore – a come velocizzare il processo e renderlo standardizzabile. Al momento sono riusciti a ricreare piccoli tessuti all’interno di un bioreattore che tiene in vita le cellule stesse.
Si parla di scale-up, un processo che, secondo Skylar-Scott, è una delle sfide dell’immediato futuro per la scienza: «è necessario trovare un modo per rendere queste cellule più robuste ed economiche da crescere, così da poter procedere con il perfezionamento del nostro metodo e poi iniziare a utilizzarlo in concreto».

Stefania Somaré