Con questo editoriale concludo (buon per voi) il breve percorso intrapreso sulla sostenibilità provando ad affrontare l’ultimo ambito che avevo identificato qualche mese fa. Quello forse più complesso da inquadrare soprattutto per chi, come tanti di noi, vive “in” e “di” ospedale.
Mi riferisco alla sostenibilità sociale e sanitaria che va oltre il concetto di universalità, inteso come garantire che i servizi sanitari siano accessibili a tutti, indipendentemente dal reddito, dal livello sociale o dalla posizione geografica. Una sanità sostenibile deve favorire l’equità, combattere le disuguaglianze nella salute e promuovere stili di vita sani. Ma parliamo di “sanità”, intesa come qualità positiva di un individuo o di una collettività. Che impatta sul Servizio Sanitario perché la salute collettiva dipendente e influente dall’organizzazione del servizio chiamato a garantirla.
Se questo è l’assunto, stiamo parlando di salute e medicina preventiva, di stili di vita, di benessere mentale e di come questi inevitabilmente hanno una ricaduta sulla sostenibilità del servizio sanitario e della società nel suo complesso. Ma, viceversa, anche di quello che il Servizio Sanitario – che ha le competenze tecnico-cliniche in materia – può e deve fare per favorire questi comportamenti nella popolazione.
La promozione della salute preventiva non solo riduce il carico di malattie ma favorisce una cultura della salute che può aumentare la qualità della vita. Le abitudini alimentari, la mobilità e il benessere mentale rappresentano determinanti fondamentali per la salute, nel breve e nel lungo periodo. In un mondo in cui cronicità e invecchiamento rappresentano la sfida, questo tipo di approccio può portare certamente vantaggi al sistema nel suo complesso, perché possono essere liberate risorse da dedicare a chi presenta patologie più acute.
Qual è il ruolo della tecnologia e quali le sfide? Come sempre la tecnologia è strumento per l’acquisizione di dati e la loro successiva elaborazione. Anche in questo caso resta valido il concetto basilare relativo alla definizione del fabbisogno, non solo in termini numerici ma anche di tipologia di device che sono necessari. Ovviamente, in tutti i casi in cui sia necessaria un’interazione paziente-personale sanitario parliamo di telemedicina nelle sue varie declinazioni. Sono stati spesi fiumi di parole su questo concetto.
Mi preme solo sottolineare che perché questo strumento sia efficace occorre un committment di tutti. Non è un problema di piattaforme (certo, aiutano), ma di credere nella soluzione e nella sua efficacia. Come gestore della tecnologia questa fiducia viene spontanea, anche se è evidente che occorrono – ancora una volta, che novità! – chiarezza della domanda, organizzazione, definizione dei processi, formazione.
Su quest’ultima, poi, occorre investire in modo importante perché le figure coinvolte non sono solo cliniche (quindi di per sé “culturalmente predisposte”) ma anche persone magari meno pronte all’interazione con la tecnologia e alla gestione di percorsi che richiedono costanza e puntualità.
Anche in questo caso si può parlare di aderenza terapeutica, che può essere garantita solo con la formazione e, soprattutto, con il convincimento del paziente che è suo interesse essere il più possibile fedele a quello che gli viene chiesto. La tecnologia può aiutare e favorire anche l’aderenza (pensate alle chatbot che ricordano al paziente cosa deve fare), ma l’uomo purtroppo o per fortuna…è creato libero!
Più complicata è la gestione di quanto consegue a tutto il mondo (non medicale) che è riferibile al wellbeing: app che “fanno il dottore”, smartwatch che rilevano parametri vitali ecc.
Il tutto infarcito di sistemi più o meno validi di IA.
Anche in questo caso serve una campagna di sensibilizzazione della popolazione – la chiamiamo sensibilizzazione, ma dovrebbe essere formazione – che deve raggiungere tutti.
Soprattutto i soggetti sani che, in quanto tali, si sentono lontani dal Servizio Sanitario e che quindi sono i più difficili da raggiungere ma che devono avere alcune basi concettuali per reagire correttamente ai messaggi che arrivano dai sistemi tecnologici a loro disposizione.
Altrimenti ci troveremo con malati immaginari, ipocondriaci fai da te, malati “da iWatch” con conseguente richiesta di prestazioni che avranno come unico effetto l’allungamento delle liste d’attesa e l’erogazione di prestazioni quasi certamente inutili. Esattamente il contrario di sostenibilità!
La popolazione (nel senso statistico del termine) da affrontare in questo campo è vastissima, con diversificazioni estreme, soprattutto culturali, spesso più incline a seguire social media e influencer che quello che racconta qualcuno di autorevole. Per il sistema (e per la sostenibilità) una montagna da scalare!
Come tecnici possiamo fornire il nostro contributo su vari fronti, ma in questo caso più che in altri la decisione e l’azione sono di natura “politica”, di policy.
Quando leggerete questo editoriale, saremo prossimi all’incontro (spero ci siate tutti!) al Convegno Nazionale AIIC a Napoli (14-17 giugno, Mostra d’Oltremare). Come tutti gli anni, abbiamo provato a sollevare la testa dalla nostra scrivania ed è venuto quasi naturale decidere di affrontare il tema della sostenibilità.
Non perché ne parlano tutti, ma perché siamo convinti, come ho anche cercato di rappresentare in questi ultimi editoriali, che la tecnologia e la gestione di questa e dei processi a essa collegati (guarda caso il nostro lavoro di Ingegneri Clinici) siano fondamentali per affrontare efficacemente i tre domini della sostenibilità, ben sapendo che la nostra è solo una delle componenti coinvolte.
Vi aspetto per discutere di questi argomenti, per iniziare a costruire qualcosa in questo senso.