A oggi, il 23% della popolazione italiana è composta da over 65, un dato che sottolinea l’urgenza di anticipare l’erogazione di prestazioni in setting diversi dall’ospedale. In questo scenario connotato da un progressivo invecchiamento della popolazione e da un incremento dei bisogni, legato in buona parte alle cronicità, i setting territoriali acquisiscono crescente centralità e così una maggiore integrazione tra i diversi luoghi di cura, anche grazie al potenziamento dell’uso della tecnologia e all’integrazione tra servizi sanitari e sociali.
In questo contesto il domicilio rappresenta uno degli snodi più promettenti, anche se rimangono molti interrogativi. Per fornire spunti e risposte, lo scorso 10 aprile a Roma si è tenuto un evento promosso dalla rete FareSanità dal titolo “L’organizzazione dell’assistenza a domicilio e della long term care: perché e come metterla a terra?” introdotto e moderato da Marinella D’Innocenzo, presidente L’Altra Sanità e già direttore generale Aziende Sanitarie, e da Massimo Casciello, direttore generale Ministero della Salute e membro del Comitato Scientifico Associazione Scientifica per la Sanità Digitale, che ha visto il coinvolgimento di numerosi stakeholder: direttori generali, operatori sanitari, pazienti.
La situazione italiana
Negli ultimi anni il trend degli over 65 che beneficiano di cure a domicilio è aumentato significativamente passando dai 252 mila del 2014 ai 650 mila del 2019 fino a 1,17 milioni del 2024, con un’incidenza quadruplicata: dall’1,95% all’8,4% del totale.
A preoccupare sono inoltre le stime in base alle quali nei prossimi 20 anni 1 cittadino su 3 sarà over65, 6 milioni gli over65 soli e a rischio di isolamento con almeno una patologia cronica. In questo contesto l’assenza di una adeguata assistenza domiciliare concorrerà ad aumentare gli accessi inappropriati in Pronto Soccorso: in tal senso basti pensare che i dati SDO di Agenas relativi al 2019 denunciavano 600mila giornate di degenza inappropriate l’anno per accessi di over70.
Tra invecchiamento e non autosufficienza
Altresì, se ad oggi gli over 65 rappresentano il 24,3% della popolazione, nel 2050 costituiranno oltre un terzo della popolazione complessiva (34%).
Inoltre, del totale degli over 65, il 20,7% non è autosufficiente. L’Assistenza Domiciliare Integrata, rappresentava nel 2021, il 4,7%; nel 2023 ha toccato l’8,4%, avanzando verso il traguardo posto dal PNRR del 10% entro il 2026.
Tuttavia, l’ADI a oggi fornisce assistenza di base, incapace di rispondere ad esigenze ad alta complessità, il che implica che la popolazione non autosufficiente non è contemplata nell’incremento mostrato.
L’esigua disponibilità dell’ADI
Esiste altresì un problema di disponibilità oraria, ossia di erogato per caso. In Italia la media oscilla tra 16 e 18 ore medie annue per utente a fronte di una media UE di 20 ore mensili, lasciando scoperti oltre un terzo dei richiedenti (35%). Anche in termini di finanziamento, l’ADI a livello europeo drena il 3,5% del PIL, a fronte di un 2,5% nazionale.
L’assenza di assistenza sociale
A ciò si aggiunge una risposta sociale molto inferiore al bisogno. Emerge un quadro sconfortante in cui: la non autosufficienza difatti non viene gestita dall’ADI; coloro che vengono assistiti ricevono assistenza prestazionale e non integrata; esistono forti diseguaglianze territoriali, in particolare sui servizi sociali, tra Nord e Sud del Paese; la cosiddetta “riforma anziani” nel passaggio ai decreti attuativi è stata svuotata della sua parte più innovativa.
Il tutto si traduce in: scarsità di risorse e frammentazione, anche a livello istituzionale. Restano irrisolte le diseguaglianze, il sistema di monitoraggio e sistemi dedicati alla long term care domiciliare. Senza contare che l’assistenza agli anziani drena il 70-80% delle risorse totali a disposizione della sanità.
I principali gap
Di fronte a questa situazione si evidenziano una serie di criticità: esiguità delle risorse per soddisfare la domanda; forti perplessità rispetto a ospedali e case di comunità, rispetto alle quali esiste un sentiment di sfiducia da parte dei pazienti (che si associa a quella degli operatori) i quali ultimi non si sentono garantiti in simili strutture percepite come “ospedali di serie b”.
Per gestire il territorio in maniera efficace – è stato sottolineato più volte nel corso della mattinata – serve un’approfondita conoscenza dell’area, della sua popolazione e della sua stratificazione. Del resto anche l’esperienza Covid-19 ha insegnato che se si arriva al territorio si raggiungono importanti obiettivi. Tuttavia la messa a terra di un’organizzazione strutturata risulta complessa.
Risulta necessaria una ridefinizione del Piano Nazionale delle Cronicità, una valorizzazione delle professionalità, una rete geriatrica di presa in carico territoriale di concerto con le Municipalità oltre che un uso più strutturato e potenziato della telemedicina e dell’innovazione tecnologica che possono concorrere a ridurre i costi di gestione delle cronicità ottimizzando i risultati.
I pazienti del resto necessitano di una continuità assistenziale, sia in presenza sia in remoto.
Come tradurre in azioni concrete le criticità emerse? Esiste probabilmente un mix di concause in tal senso: modelli organizzativi, carenza di professionalità, ma anche un percorso normativo incompiuto.