L’Agenda dell’Organizzazione delle Nazioni Unite 2030 per lo sviluppo sostenibile contempla, al quinto punto, anche il raggiungimento della parità di genere nella vita economica e politica del mondo. Un obiettivo ambizioso, se si pensa che nel mondo le donne con posizione decisionale sono ancora poche. E non solo in ambito politico.
Se si prende in considerazione la sanità, per esempio, si vedrà che la maggior parte dei professionisti è donna, ma che questi rivestono ruoli di secondo piano e solo di rado raggiungono i vertici di un Dipartimento o di un’Azienda Sanitaria. Lo stesso vale anche per alcune particolari discipline, come quella chirurgica: i chirurghi donna sono ancora pochi e quasi mai dirigono un team. In Italia, per esempio, si calcola che il 60% del personale in servizio nel SSN è donna, ma solo il 22% è coinvolta nel management.
Un problema che potrebbe peggiorare nel tempo, se si pensa che oramai il 60% degli iscritti alla Facoltà di Medicina è donna. Alla base di questa continua disuguaglianza c’è una carenza organizzativa che non consente di conciliare la vita lavorativa con quella privata: ecco allora che se una donna non ha famiglia e può permettersi di dedicare ogni ora del suo tempo al lavoro, allora può sperare di salire di grado dal punto di vista professionale.
Diversamente, deve fare delle rinunce, non sempre sufficienti a raggiungere l’obiettivo. In alcune specialità esiste infatti la convinzione cultura che le donne non possano fare bene quanto un uomo. Lo stesso si dica per il potenziale decisionale.
Spiega Giovanni Migliore, presidente Fiaso: «occorre lavorare su due fronti: promuovere la parità di accesso agli incarichi dirigenziali ma anche ripensare l’organizzazione del lavoro in maniera che possa garantire la conciliazione dei tempi vita-lavoro. La carenza di personale, spesso, costringe a sobbarcarsi turni e straordinari che lasciano poco spazio per combinare le esigenze della vita privata e quella lavorativa. E a subirne le conseguenze sono quasi sempre le lavoratrici.
Occorre anche per questo investire sul personale nel servizio sanitario nazionale che in 10 anni si è ridotto del 6%. A fare la differenza potrà essere anche il digitale, che nel PNRR riceve una grossa quota di finanziamenti, che consentirà di sviluppare la telemedicina permettendo al paziente di essere assistito a domicilio. Bisognerà inoltre valorizzare, per quelle figure che lo consentono, l’esperienza dello smart working che ha dimostrato durante la pandemia la sua efficacia».

Il problema non è, tuttavia, solo italiano. In Australia, per esempio, le donne rappresentano il 75% dei lavoratori sanitari, ma solo il 45% occupa un posto di comando in un ospedale pubblico, il 39% in un ospedale privato e il 30% in un ufficio sanitario federale.
Un esempio che concorre a non farci sentire soli. Esistono molte false convinzioni che influenzano le scelte lavorative di una donna, che quando opta per una professione medica spesso si indirizza verso ginecologia, pediatria o medicina generale. Altri ambiti, come l’ortopedia e la chirurgia sono invece appannaggio maschile.
In chirurgia, per esempio, si ha un 5% di donne impegnate in ruoli dirigenziali contro un 95% di uomini e questo perché la curva di apprendimento richiede tanti sacrifici proprio negli anni dell’età fertile, tra i 30 e i 40 anni.
Stefania Somaré