Una delle sessioni più rilevanti del secondo weekend del 74° Congresso nazionale SIAARTI “ICARE2020: Tecnologia e Umanizzazione nell’era del Covid-19” è stata quella dedicata all’impatto del Covid-19 sulle emergenze pediatriche e neonatali.

«Fin dalle prime fasi della pandemia, famiglie, autorità sanitarie e caregiver si sono preoccupati di quanto i bambini sarebbero stati colpiti dal virus e soprattutto dell’entità dell’infezione in età pediatrica», è la risposta del prof. Giorgio Conti, direttore della UOC Terapia Intensiva Pediatrica e Trauma Center Pediatrico del Policlinico Gemelli di Roma.

«Dai primi studi realizzati in Cina e confermati da studi europei e statunitensi, è apparso evidente come bambini e adolescenti Covid positivi, oltre a essere spesso asintomatici, presentino una suscettibilità all’infezione pari a meno della metà rispetto agli adulti.
Le evidenze scientifiche disponibili indicano, infatti, che nei pazienti pediatrici l’infezione da Covid-19 si manifesta con un andamento clinico più favorevole rispetto all’adulto: i bambini hanno una letalità decisamente inferiore, intorno allo 0,06% nella fascia d’età 0-15 anni».

Il prof. Conti ha precisato però che, anche se i sintomi del Covid-19 nei più piccoli sono spesso assenti o lievi, l’infezione può in alcuni casi comportare lo sviluppo di complicanze o forme cliniche peculiari e potenzialmente molto gravi come la sindrome infiammatoria acuta multisistemica in età pediatrica, che soprattutto in Nord-Europa e Usa è stata caratterizzata «da gravi complicanze e mortalità non trascurabile, richiedendo di norma il ricovero in Terapia Intensiva Pediatrica.
Soprattutto se parliamo di soggetti con meno di un anno d’età e/o in presenza di patologie preesistenti, i bambini colpiti da Covid-19 possono richiedere un elevato livello di cure intensive».

Che cosa abbiamo imparato e che cosa dobbiamo imparare in periodo emergenziale sul trattamento accurato dei pazienti più piccoli?

Su questa domanda si è concentrato l’intervento del prof. Daniele De Luca (direttore della Divisione di Neonatologia presso l’Università Paris-Saclay e presidente eletto della Società Europea di Terapia Intensiva Pediatrica e Neonatale), che ha pubblicato due studi chiarificatori sul tema (“Synthesis and systematic review of reported neonatal SARS-CoV-2 infections”, Nat Commun, Vol 11, article nr 5164 – 2020; “Transplacental transmission of SARS-CoV-2 infection”, Nat Commun, Vol 11, article nr: 3572 – 2020).

«I nostri studi hanno espresso una parola definitiva sull’infezione da Covid-19 nel neonato», precisa De Luca. «Si pensava impossibile la trasmissione, purtroppo non è così: nella metanalisi che abbiamo realizzato su 176 casi registrati nel mondo, il 30% di questi bambini è infettato verticalmente, il 70% orizzontalmente da genitori e caregiver».

I risultati principali degli studi di De Luca (firmati da un team composto anche da suoi collaboratori italiani a Parigi) indicano che l’infezione ha caratteristiche simili a quelle riscontrabili negli adulti: metà dei soggetti è asintomatica e metà presenta sintomi respiratori, neurologici, cardiovascolari.
La metanalisi indica che la mancata separazione tra bambino e madre – ove questa sia sintomatica e quindi particolarmente infettiva – aumenta significativamente il rischio di infezioni: una certa separazione non va dunque vista come tabù ma come una misura temporanea, limitata e di buon senso.
In alternativa, se è impossibile il distanziamento, sarà necessario rinforzare l’uso dei DPI e le misure igieniche nell’assistenza ai bambini, anche per possibili conseguenze successive.

Che cosa abbiamo imparato, dunque, e che cosa dobbiamo imparare per affrontare il prossimo periodo?
«Siamo partiti da una fase in cui il messaggio era che il Covid non riguarda i bambini», precisa De Luca, «ma si è trattata di un’affermazione sbilanciata che avremmo potuto e dovuto evitare, preferendo invece dire “non sappiamo se e in che misura la nuova malattia interessi i bambini”.
Oggi sappiamo con certezza che il Covid pediatrico esiste eccome, altrettanto quello neonatale.
Certamente le forme gravi/critiche sono meno frequenti che nell’adulto, ma esistono e si manifestano con gli stessi coinvolgimenti organici, cioè soprattutto insufficienza respiratoria, ma anche manifestazioni neurologiche gravi e cardiovascolari.
È interessante notare come queste manifestazioni si ritrovino a tutte le età».

Prosegue il prof. De Luca: «abbiamo imparato altresì che la trasmissione verticale (da madre a neonato) esiste (era una trasmissione negata inizialmente) e rappresenta il 30% delle infezioni neonatali: i nostri lavori a Parigi lo hanno dimostrato.
E ancora: abbiamo appreso che, dopo l’infezione, in ritardo ci può essere nel bambino una sindrome infiammatoria multisistemica che può estrinsecarsi in vari modi, dalla vasculite simil-Kawasaki alla miocardite acuta alla sindrome da attivazione macrofagica.
Per concludere, è necessaria grande prudenza sia nelle affermazioni sia nella presa in carico dei pazienti».

Il prof. De Luca ha concluso ricordando che «nel mondo pediatrico e neonatale, per caratteristiche intrinseche e per scarsità di casi, è più difficile condurre trial randomizzati, per questo non abbiamo ancora dati di alta qualità e squisitamente pediatrici per le terapie e il follow-up di questi pazienti.
Non abbiamo ancora capito, per esempio, se i bambini più piccoli (neonati o lattanti) sono più a rischio di forme gravi rispetto ai bimbi più grandi, perché ci sono dati discordanti in merito, anche se la logica lo vorrebbe.
Per questo, ESPNIC – European Society for Pediatric and Neonatal Intensive Care ha lanciato il registro internazionale EPICENTRE ESPNIC per rispondere a queste domande e avere dati epidemiologici certi sulla malattia in età pediatrica e neonatale.
Più di 100 centri ospedalieri nel mondo stanno partecipando a questo progetto e speriamo di avere presto dati conclusivi».