Trasparenza e condivisione

MontiSono i tratti costitutivi dello stile dirigenziale di Patrizia Monti (nella foto), direttore sanitario dell’Azienda Ospedaliera di Lecco. Le sue esperienze professionali pregresse e il suo essere donna in un contesto, quello della medicina, sempre più femminile ne fanno un esempio emblematico di come dovrà organizzarsi il mondo ospedaliero nel futuro.
Monzese di nascita, Patrizia Monti si è laureata in Medicina e Chirurgia per poi specializzarsi in Igiene e Medicina Preventiva. Per oltre vent’anni è stata dirigente medico di Presidio all’Ospedale Leopoldo Mandic di Merate, dapprima come medico di direzione sanitaria, quando il presidio non era ancora parte integrante dell’Azienda Ospedaliera di Lecco, poi come direttore medico. Successivamente si è perfezionata in Management Sanitario partecipando a corsi realizzati dal San Raffaele con l’Università Cattolica, dalla Scuola di Direzione Sanitaria dell’Iref e dall’Università Bocconi di Milano. Dal 2008 è stata direttore medico presso l’Irccs Policlinico San Matteo di Pavia, per poi assumere l’incarico, nel febbraio del 2011, di direttore sanitario dell’Azienda Ospedaliera di Lecco. Un’azienda che ogni anno registra mediamente oltre 35mila ricoveri, diverse centinaia di migliaia di giornate di degenza, quasi 15mila interventi chirurgici e circa 3 milioni di prestazioni ambulatoriali, oltre a circa 80mila accessi in Pronto Soccorso e 2.600 parti.

Com’è strutturata l’Azienda ospedaliera di Lecco?
«La nostra realtà aziendale è costituita da tre presidi ospedalieri: quello di Lecco, che porta il nome di Alessandro Manzoni, quello di Merate, intitolato a San Leopoldo Mandic e il Presidio Ospedaliero Umberto I di Bellano. Quella di Lecco è una struttura per acuti caratterizzata da alcune alte specialità: per esempio, cardiochirurgia, terapia intensiva neonatale, neurochirurgia, settori che non hanno soltanto un ambito di competenza territoriale, ma sovraterritoriale. L’ospedale di Merate, di medie dimensioni, conta circa 300 posti letto, ha tutte le specialità di base, anche se abbiamo cercato di caratterizzarlo con alcune specificità per renderlo attrattivo sia nei confronti dei pazienti che dei professionisti che vi operano. Infine, l’ospedale di Bellano, che ha circa 90 posti letto, è un presidio riabilitativo per i pazienti dimessi dall’ambito neurologico e ortopedico, provenienti dagli ospedali di Merate e Lecco. In questa struttura recentemente abbiamo trasferito la nostra Comunità Riabilitativa Alta Assistenza (C.R.A.) dalla sua vecchia sede che non era più idonea. Anche a Bellano abbiamo cercato di caratterizzare la mission proprio per tenere alta la tensione allo sviluppo di competenze professionali, per esempio cercando un accordo con Inail (la convenzione non è ancora stata stipulata) in modo che la struttura diventi un riferimento per la riabilitazione dell’infortunato sul lavoro».

In un contesto così ampio e complesso, che ruolo svolge la comunicazione?
«È fondamentale. Negli ospedali, come in tutte le grandi aziende, e ce ne siamo accorti anche facendo delle analisi come quella sullo stress lavoro correlato, non sempre si riesce a far conoscere a tutti i livelli dell’organizzazione gli orientamenti della direzione strategica nel suo periodo di mandato e la programmazione annuale, pur cercando di comunicare con tanti strumenti, come per esempio le news aziendali, gli incontri con i dirigenti che poi a loro volta si incontrano con gli operatoti, i tavoli di comunicazione. Non a caso, quest’anno abbiamo ritenuto di fare degli incontri con tutte le assemblee di dipartimento, proprio per cercare di far conoscere i nostri orientamenti. La comunicazione ha una grande attinenza con il ruolo della direzione».

L'Ospedale Manzoni di Lecco
L’Ospedale Manzoni di Lecco

A proposito, qual è il suo stile dirigenziale?
«Gli aspetti più importanti del mio stile sono la trasparenza e la condivisione, fermo restando che alcune decisioni devono essere prese a prescindere dal fatto che ci sia una condivisione. Poi, mi assicuro sempre che ci sia il coinvolgimento delle strutture a cui i progetti sono dedicati, dando il mio sostegno ai piani di lavoro e alle aspettative dei diversi direttori».

Le sue esperienze professionali pregresse l’hanno aiutata in questo?
«Sì, soprattutto quella maturata all’inizio della mia carriera. Allora il mio direttore generale era un clinico, di formazione. Come tale, pensavo, una persona poco avvezza a trattare gli aspetti organizzativi dei medici: in realtà con lui ho imparato molto, soprattutto la necessità di tenere sempre in considerazione il fatto che i pazienti sono i destinatari finali delle nostre azioni. La seconda esperienza che mi ha fatto crescere è stata quella con il dott. Caltagirone, direttore generale, e il dott. Zoli, direttore sanitario aziendale: è stato un periodo in cui si è costruito molto e l’azienda è cresciuta, anche in termini di innovazione organizzativa».

Perché ogni azione ricade sul paziente…
«Certo, e questo ormai credo sia una consapevolezza per tutti i decisori e gli organizzatori, tuttavia non ricadono solo sul paziente: in realtà le nostre azioni hanno ricadute anche in altri ambiti organizzativi e su altre figure: i familiari dei degenti, il personale che lavora, le loro famiglie, perché quello ospedaliero è un sistema davvero complesso».

E le associazioni dei malati, che ruolo svolgono? Sono una risorsa o un motivo di preoccupazione?
«Dieci anni fa, sinceramente, avrei detto una preoccupazione, ma oggi che siamo maturate entrambe dico che sono una risorsa se si riesce a instaurare un rapporto di collaborazione. Nella nostra azienda, per esempio, di recente abbiamo potuto portare avanti un progetto sul consenso informato: proprio grazie alla collaborazione delle associazioni dei pazienti, abbiamo testato alcune informative che abbiamo messo a punto per arrivare a comunicare rischi e benefici rispetto agli interventi chirurgici. Le associazioni hanno intervistato i pazienti e ci hanno restituito le informazioni dal loro punto di vista e a noi questo è servito per capire se il linguaggio era comprensibile, se quel tipo di informazione era risultata determinante nel far prendere la decisione al paziente rispetto all’intervento chirurgico, oppure nel seguire strade alternative».

È una collaborazione che avete in qualche modo strutturato?
«Sì, periodicamente le associazioni di volontariato si riuniscono con i rappresentanti dell’azienda e questo serve da un lato a far conoscere le nostre iniziative, dall’altro a recepire le segnalazioni dei pazienti. Tutto questo ha dato luogo a diversi progetti. Uno, partito a Lecco, ma ora attivo anche a Merate, prevede la presenza di volontari, nelle hall di ingresso, che supportano i pazienti, non soltanto nelle indicazioni sui reparti da raggiungere, ma anche sulle modalità di accesso ai servizi. L’altro riguarda le strutture che si occupano di oncologia che insieme ai volontari hanno costituito, per esempio, l’emissione di depliant informativi sui diritti dei pazienti con la malattia oncologia, e l’individuazione di spazi in cui sono presenti dei parrucchieri volontari e altri operatori dell’associazione per consegnare gratuitamente delle parrucche, in particolare alle donne che perdono i capelli dopo la chemioterapia. Potrebbe sembrare poco rilevante, ma il fatto che la paziente si rechi in questo luogo senza dover spiegare la sua situazione ha un grande valore, anche umano. Questi sono solo alcuni dei progetti nati grazie alla collaborazione con le associazioni dei pazienti e di volontariato, ma ce ne sono anche molti altri».

Che valore ha essere donna in un ambiente che si sta progressivamente femminilizzando?
«Può essere una risorsa, anche se non mancano uomini con la stessa sensibilità, perché credo ci siano attitudini e stili che possono essere presenti a prescindere dal genere. In ogni caso, l’ospedale è abitato sempre più da donne, è vero, anche in ambito medico. Questo in futuro potrebbe creare difficoltà per quanto riguarda le assenze sul posto di lavoro dovute a cause familiari, soprattutto riconducibili ai figli. Dovranno cambiare le norme e si dovrà pensare alla necessità di dover garantire idonee sostituzioni ai reparti.
Sul fronte delle iniziative nate sulla scia di una sensibilità tutta femminile, invece, ricordo il progetto Enea, partito grazie a input regionali per sviluppare percorsi facilitatori nell’approccio alla struttura sanitaria per i pazienti con gravi handicap e che probabilmente abbiamo potuto sviluppare maggiormente anche grazie al contributo di figure e sensibilità femminili, ma anche un altro progetto sulla violenza di genere: stiamo formando gli operatori perché ci sia una maggiore accoglienza e l’intercettazione delle donne che possono arrivare in Pronto Soccorso o ai nostri servizi ospedalieri dopo aver subito una violenza».

Come sarà la medicina di domani?
«Penso che la medicina del futuro sarà molto più personalizzata e predittiva – già adesso la biologia molecolare fornisce informazioni preziose sull’esito che un farmaco può avere su un paziente affetto da tumore, per esempio – e per quel che riusciremo a fare, speriamo anche preventiva. Sicuramente sarà più partecipata, e qui rientra il tema dell’empowerment del paziente, della trasparenza e dell’accountability. Insomma, sarà sempre più integrata e dovrà tener conto anche della sostenibilità».

E sul piano organizzativo, invece, quali saranno le novità?
«Anzitutto spero che il Ssn manterrà l’universalismo introdotto dalla legge 833 del 1978. Credo che gli aspetti su cui si dovrà lavorare riguarderanno i livelli di assistenza, fino al problema della cronicità, già affrontato in alcune Regioni, in corso di analisi e sviluppo anche in Regione Lombardia. Inoltre, si dovrà lavorare maggiormente non tanto sulla produttività quanto sugli esiti delle nostre azioni, sui risultati, oltre che sul benchmarking, cioè sul confronto tra ospedali e su un diverso rapporto medico-paziente che non riguardi solamente l’empowerment, ma anche il significato della dignità e della qualità di vita, senza dimenticare il problema della mobilità dei pazienti».

Dovuta anche alla riorganizzazione della rete ospedaliera…
«Credo che la chiusura di alcuni ospedali o reparti – come nel caso dei punti nascita troppo piccoli per essere convenienti e sicuri – sia inevitabile, tuttavia questa è una strada che dovrà essere percorsa con grande attenzione perché non sempre i grandi numeri, da soli, assicurano la competenza e la sicurezza richiesta: se in grande ospedale, per esempio, gli intereventi chirurgici in una certa specialità sono distribuiti su dieci operatori, questi equivalgono agli stessi eseguiti in un piccolo ospedale dove gli interventi sono minori, ma suddivisi su un numero altrettanto minore di operatori che dunque, presi singolarmente, maturano la stessa esperienza».

Pierluigi Altea