Con uno studio sull’assistenza sanitaria 24 ore su 24 e sulla gestione delle urgenze basato su dati inviati dalle Regioni al sistema Emur del Ministero della Salute, l’Agenzia nazionale per i Servizi sanitari regionali ha rilevato tra 2011 e 2012 un calo degli accessi impropri ai centri ospedalieri di prima assistenza grazie a esperienze virtuose. Ne abbiamo parlato con Mariadonata Bellentani, dirigente della Sezione Organizzazione dei Servizi Sanitari di Agenas.
Vorrebbe ripercorrere la genesi dello studio pubblicato da Agenas?
«Si tratta del frutto di un percorso compiuto di concerto con il Ministero e con le Regioni, volontariamente, sui progetti proposti dalle Regioni medesime nell’ambito di ciò che definiamo “Obiettivi prioritari per il servizio sanitario” per il 2009. Le Regioni accedono ai finanziamenti previa presentazione dei progetti per i quali l’Accordo Stato-Regioni del 25 marzo 2009 ha stanziato un miliardo e 410 mila euro. L’Agenas si è occupata di quelli inerenti la linea operativa: Cure primarie – Assistenza h24, riduzione degli accessi impropri al Pronto soccorso e miglioramento della rete assistenziale, oggetto appunto della pubblicazione su Monitor. Per la prima volta il ministero ci ha delegato al monitoraggio di tutta questa serie di progetti e di attività, dei prodotti e dei risultati ottenuti, dei modelli sperimentati: ambulatorio dei codici bianchi in Pronto soccorso, punti di primo intervento, medicina associativa sul territorio, riduzione del ricorso agli ospedali con una Casa della Salute sul territorio. Schemi organizzativi, insomma, allestiti sia negli ospedali e al Pronto soccorso sia localmente collaborando con la medicina generale».
Dove risiedono, a suo avviso, le componenti più innovative e valide dell’intera iniziativa?
«Si tratta di un progetto che per la sua stessa natura si dimostra da principio innovativo, perché sperimenta in maniera condivisa, tanto sul piano nazionale quanto a livello regionale, un metodo di analisi e monitoraggio finalizzato alla valutazione dello stato di avanzamento dei diversi progetti presentati. Questo metodo è inoltre potenzialmente adattabile anche ad altre realtà diverse tra loro e risulta applicabile non solo in studi ad hoc, ma anche per il follow up dei progetti nel tempo. Il tema che abbiamo in questo caso affrontato può essere definito come prioritario nella priorità perché il 25% delle risorse assegnate agli obiettivi prioritari di Piano sono attribuiti proprio al riordino delle cure primarie e alla riduzione degli accessi impropri al Pronto soccorso. Ogni Regione le riceve dal Ministero per la Salute sulla base dei progetti che mette a punto e in un’entità definita precisamente con un riparto annuo, sino al 3% del fondo sanitario nazionale. Tali risorse, va ricordato, vengono ripartite tra le Regioni sulla base del numero complessivo dei residenti».
Può spiegarci le linee guida metodologiche che hanno guidato l’indagine nazionale?
«Nel 2009 il Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali ha predisposto le “Linee guida per progetti di sperimentazione inerenti modalità organizzative per garantire l’assistenza sanitaria in h24: riduzione degli accessi impropri nelle strutture di emergenza e miglioramento della rete assistenziale territoriale”, prevedendo la sperimentazione sul territorio di cinque modelli organizzativi complessi, di cui due per il livello ospedaliero (Ambulatori per la gestione dei codici di minor gravità e Punti di primo intervento) e tre per il livello territoriale (Presidi ambulatoriali distrettuali, Assistenza territoriale integrata e Ambulatori territoriali integrati). Fu una vera innovazione. Per effettuare il monitoraggio dei progetti regionali, sono quindi state prese in considerazione queste linee guida e si è tenuto conto anche degli ultimi Accordi Collettivi Nazionali della Medicina Generale (Acn) e delle indicazioni in termini di programmazione specifiche di ogni singola Regione. Per poter contare su risultati oggettivi e di un certo peso è stato tuttavia necessario attendere fino allo scorso anno e questo perché i modelli organizzativi nuovi richiedono tempo per essere adottati e implementati correttamente. Per avere una loro validità scientifica le esperienze devono durare da due a cinque anni almeno, in condizioni di stabilità. Sono state valutate le iniziative messe in atto, come si è visto, in dodici Regioni, e alcune di esse sono stati oggetto di un ulteriore approfondimento nei casi studio. È stata definita una metodologia di analisi condivisa con i tecnici delle dodici Regioni. Il metodo era nato inizialmente per le analisi di monitoraggio; in seguito è stato studiato un metodo statistico multilivello molto complicato, ma adatto a una realtà complessa come quella della sanità, con un approccio che tiene in considerazione lo status quo precedente e successivo al progetto. Gli strumenti ottenuti e utilizzati sono a mio avviso il più grande risultato tra quelli conseguiti perché, come ho detto, sono applicabili a progetti diversi».
Quali esperienze sono state oggetto di più approfonditi casi di studio e per quali motivi?
«Ci si è focalizzati sulle esperienze provenienti dalle regioni Calabria, Veneto, Emilia Romagna, Toscana. Tutte possedevano infatti un sistema di banche dati molto avanzato e questo ci ha consentito di condurre analisi molto dettagliate e precise sull’impatto delle politiche aziendali/regionali sugli accessi in Pronto soccorso potenzialmente inappropriati, valutando l’effetto prodotto da queste esperienze sugli accessi non seguiti da ricovero. Due delle quattro realtà hanno restituito risultati decisamente positivi, nonostante la relativa brevità dei periodi presi in esame, con un’importante riduzione dei codici e bianchi e verdi. Negli altri due casi le variazioni non sono state significative, ma il lasso di tempo studiato è stato troppo contenuto. Possiamo tuttavia affermare che sul territorio nazionale la tendenza sia a un benefico ridimensionamento degli accessi impropri».
Quali sono gli ingredienti chiave di un’efficace strategia in questo senso?
«I punti cardine di una buona strategia sono il coordinamento tra la medicina del territorio, gli specialisti e le altre professioni sanitarie, oltre che la collaborazione con gli ospedali. Meccanismi operativi semplificati, chiari, realmente efficienti. Devono altresì essere a disposizione strumenti di rilevazione univoci e un collegamento solido ed efficiente tra le varie strutture, anche sul piano dell’informatizzazione. Quello del target è un ulteriore problema e deve essere affrontato. Dobbiamo lavorare fissando un target per ogni tipo di necessità, competenza, intervento. Nel nostro caso il target è stato il paziente con un bisogno di salute non ancora classificato, che necessita di assistenza per condizioni non urgenti e non complesse dal punto di vista specialistico e tecnologico».
Il suo giudizio sulla ricerca e sulle strategie fin qui implementate è comunque positivo?
«Certo. Si tratta di un lavoro da studiosi, dalle prerogative accademiche e non certo sensazionalistiche che, in virtù pure della metodologia sulla quale mi sono soffermata poc’anzi, può contribuire al miglioramento del sistema nel suo complesso. La riduzione degli accessi impropri al Pronto soccorso infatti è la punta di un iceberg, perché la riorganizzazione di cui il panorama sanitario ha bisogno è profonda. Se, per esempio, pensassimo a strutture come le Case della Salute come sostitutivi del Pronto soccorso, credo che saremmo sulla strada sbagliata. Servono ad altro. A rispondere a ciò che non è urgente».
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