Lo sviluppo di farmaci biotecnologici ha migliorato in modo determinante il decorso clinico dei pazienti con malattie infiammatorie croniche immuno-mediate: IMID, intendendo con questo acronimo quelle patologie che si sviluppano, spesso, sin dall’età pediatrica e presentano numerose caratteristiche in comune. Tra queste ultime, le più diffuse sono: l’artrite idiopatica giovanile, la psoriasi, le malattie infiammatorie croniche intestinali e l’uveite; rispetto alle quali, purtuttavia, l’utilizzo di questi farmaci non ha trovato una vasta diffusione a causa dei loro costi elevati.

Negli ultimi anni la disponibilità di farmaci biosimilari – farmaci biologici altamente simili, in molti aspetti essenziali, a un farmaco biologico già in commercio – ha consentito una drastica ed importante riduzione della spesa farmacologica. A partire dal 2006, quando l’Unione Europea ha approvato il primo farmaco biosimilare, i clinici hanno guadagnato progressivamente esperienza nel loro uso e ad oggi, essi sono parte integrante delle terapie biologiche disponibili nell’UE e il loro utilizzo è disciplinato da un regolamento molto chiaro, a protezione della salute e della sicurezza del paziente. Vitale a questo fine è la loro affidabilità, quindi la piena e completa conoscenza, da parte dei clinici, dei principi scientifici che li supportano, il loro sviluppo clinico, la loro approvazione e il monitoraggio della loro sicurezza.

Lo scorso 4 dicembre è stato quindi promosso un webinar per confrontare le diverse esperienze cliniche nella regione Toscana circa il ruolo e l’utilizzo dei farmaci biosimilari nelle malattie infiammatorie croniche dell’intestino, delle articolazioni e della cute, con l’obiettivo di aumentarne un utilizzo consapevole (un secondo appuntamento, in programma il 14 dicembre, andrà ad analizzare l’impatto della pandemia da Covid-19 sulla qualità della gestione delle malattie immuno-mediate nella medesima Regione).
Si è trattato di un evento multidisciplinare, moderato da Fabiola Del Santo, farmacista ospedaliera della Asl Toscana Sud-Est.

L’uso degli Anti TNF alfa nel trattamento di patologie dermatologiche e gastro-intestinali

Il primo intervento della giornata è stato quello della Dottoressa Francesca Prignano, Professore Associato in malattie cutanee e veneree dell’Università degli Studi di Firenze, che ha raccontato come in un convegno del 2015 mise gli Anti TNF alfa come farmaci di prima linea nel trattamento della psoriasi, generando così non poche polemiche. La psoriasi è una malattia cronica progressiva che si accompagna a non poche comorbidità che la rendono un’infiammazione sistemica in cui la cute appare coinvolta prioritariamente. Nonostante esistano parametri per misurarne la severità – trai quali il BSA, body surface area, e il PASI, Psoriasis Area and Severity Index – la maggior parte dei pazienti che ne sono affetti, sia nelle forme più lievi sia in quelle più gravi, non ricevono alcun trattamento. Guardando al 2018, tra le opzioni di trattamento per la psoriasi, circa il 50% dei farmaci veniva rappresentato da Anti TNF alfa.

Tuttavia, non tutti gli Anti TNF alfa sono uguali, avendo ciascuno indicazioni specifiche a seconda della patologia coinvolta. Considerando la grande eterogeneità di azione, emerge dunque l’importanza della scelta del farmaco, legata non soltanto alla patologia ma anche alla storia della malattia e alla fase in cui il paziente deve essere trattato. Altresì, un ulteriore elemento che deve essere tenuto presente nell’uso di Anti TNF alfa è la loro perdita di efficacia nel tempo.
L’avvento dei biosimilari ha determinato un importante abbattimento dei costi, aumentando così le opportunità di accesso ai trattamenti ad un numero maggiore di pazienti; tesi questa confermata anche dal Professor Francesco Costa, Dirigente Medico U.O. Gastroenterologia Universitaria presso l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, che ha fatto presente come l’uso di Anti TNF alfa abbia portato a risultati insperati, addirittura, in taluni casi, alla guarigione delle mucose intestinali nel morbo di Chron. “Il problema del Chron”, ha ricordato, “è che spesso presenta manifestazioni lievi che, soprattutto in pazienti giovani, vengono confuse con sindrome da intestino irritabile, con un ritardo significativo nella diagnosi, talvolta di anni”.

All’inizio l’uso di Anti TNF alfa nel trattamento del Chron avveniva con singola infusione: col tempo una strategia schedulata ha mostrato il conseguimento di risultati migliori nella cura della patologia, con conseguente riduzione del ricorso alla chirurgia.
“Nel Chron la diagnosi precoce assicura una remissione. Tuttavia una diagnosi tardiva porta spesso a complicanze della patologia per le quali la chirurgia resta l’unica risposta. E’ importante definire gli obiettivi rispetto al target”, ha ribadito Costa. “Più in generale, gli outcome sono inevitabilmente peggiori se si interviene in ritardo e con una malattia avanzata. Gli Anti TNF alfa, infatti, sono estremamente usati nel trattamento delle patologie infiammatorie intestinali. Tuttavia le caratteristiche del paziente e la diagnosi precoce sono fattori determinanti per l’esito clinico”.

L’uso degli Anti TNF alfa nelle patologie osteoarticolari

Il professor Bruno Frediani, direttore della Reumatologia del Policlinico Santa Maria alle Scotte di Siena, ha trattato, nella sua relazione, l’uso degli Anti TNF alfa nelle patologie osteoarticolari.

“In ambito reumatologico”, ha ricordato, “gli obiettivi del trattamento sono volti al controllo del danno e ad un controllo serrato per il raggiungimento della remissione della malattia. Gli Anti TNF alfa in questo senso, consentono un intervento repentino e buoni risultati a distanza. Anche qui tuttavia si riscontra una perdita di efficacia nel tempo associata talvolta a una risposta parziale e al presentarsi di eventi avversi. Di fronte ad una risposta non soddisfacente, si aumenta la dose, si procede ad un cambio di molecola, si produce un ‘aggiustamento’ con l’uso del Metotrexate, spesso aggiunto alla monoterapia, o si procede ad uno swapping verso molecole più piccole. Tuttavia, è fondamentale guardare al paziente da più punti di vista, nell’ottica di una medicina di precisione e per una sempre più puntuale appropriatezza terapeutica”.

Gli Anti TNF alfa nelle IMID miste

Il Professor Marco Matucci Cerinic, Professore Ordinario di Reumatologia presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica dell’Università di Firenze, ha affrontato il tema delle patologie immuno-mediate – IMID – miste, considerando quelle relative a problemi reumatologici, dermatologici e gastro-intestinali, accomunate tra loro dall’elemento infiammatorio.

Come già ricordato, molto spesso ci si scontra con ritardi nella diagnosi anche di molti anni dalla sua insorgenza: fino a 5 anni nelle patologie intestinali, fino a 8 anni nei casi di spondilite, e, in alcuni casi, anche sino a 12 anni, con evidenti ripercussioni sulle condizioni fisiche del paziente che possono portare alla disabilità e finanche all’abbandono dell’attività lavorativa. Inoltre, ha ricordato, le malattie infiammatorie muscoloscheletriche presentano caratteristiche ed evoluzioni differenti anche se sono accomunate: da manifestazioni extrarticolari (uveiti, infiammazione intestinale), da un’artrite periferica e da una rachialgia infiammatoria cronica, spesso riconducibili ad una storia di IMID in famiglia.

“L’approccio multidisciplinare rappresenta un elemento di grande aiuto per la sicurezza del paziente perché può essere cruciale nella scelta del farmaco, in una terapia su misura e per una diagnosi quanto più possibile precoce”.

I risultati real life nello switch da originator a biosimilare: da Adalimumab a SB5

La seconda parte del webinar è stata dedicata alla presentazione di risultati ‘real-life’ di una serie di studi condotti su campioni, anche limitati, di pazienti affetti da patologie immuno-mediate, finalizzati allo studio degli effetti dello switch (sostituzione) da farmaco originator a biosimilare.

Gherardo Tapete, Ricercatore di gastroenterologia presso l’Università degli Studi di Pisa, ha presentato i risultati di un’indagine cui hanno partecipato 8 tra i più grandi centri della Toscana incentrato sullo switch da farmaco originator a quello biosimilare (BS5) dell’Adalimumab. L’arruolamento dei pazienti è avvenuto a fine dicembre 2018 e l’ultimo follow-up è del gennaio 2020. Sono state coinvolte due categorie di pazienti: la prima includeva pazienti che avevano iniziato la terapia con originator e venivano quindi ‘switchati’ al biosimilare; la seconda comprendeva pazienti, definiti ‘naive’ che iniziavano la terapia direttamente con SB5. Di 148 pazienti, 98 erano switchati e 48 naive. In prevalenza si trattava di pazienti con Chron in remissione con un’età media di 40 anni e con una malattia di grado severo o recidiva post chirurgica.

La percentuale di remissione del gruppo dei ‘naive’ a 3, 6 e 12 mesi è stata rispettivamente dell’80%, del 70% e del 60% dei casi, dati sovrapponibili all’andamento riscontrabile con il farmaco originator. Nel secondo gruppo sottoposto allo switch, la remissione a 3 mesi è stata del 98%, dell’87% a 6 mesi e del 72% dei casi a 12 mesi.

Il back switch, con ritorno al farmaco originator, è stato messo in atto per 6 pazienti. In 5 su 6 dopo lo switch era stata riscontrata una perdita di risposta, mentre in 1 su 6 si era presentata una reazione cutanea. Quanto alla sicurezza del biosimilare, non ci sono state differenze in termini di eventi avversi nei due gruppi considerati. L’unico elemento è stato il dolore del sito iniettivo, comunque tollerabile. Solo in due pazienti naive si è presentata la psoriasi come evento avverso, mentre in un paziente sottoposto a switch una reazione cutanea severa ha condotto allo switch back. “Questi risultati”, ha concluso Tapete, “sono stati supportati da studi su campioni più vasti”.

Il dottor Cosimo Bruni ha presentato i risultati di uno studio condotto su pazienti affetti da patologie reumatologiche nello switch dall’Adalimumab al biosimilare SB5. L’indagine è stata condotta tra l’ottobre del 2018 e il maggio del 2019, su un totale di 115 pazienti con malattia reumatologica. L’analisi di efficacia ha coinvolto 82 pazienti e l’analisi sulla sicurezza e persistenza del farmaco è stata effettuata su 172 pazienti.

Negli 82 pazienti, l’Adalimumab rappresentava la prima terapia biologica. A 3 e 6 mesi di distanza dallo switch, il controllo era volto a comprendere i cambiamenti nella qualità di vita dei pazienti, unitamente alla individuazione di indicatori specifici di malattia. La malattia è rimasta per tutto il tempo sotto controllo, con lievi fluttuazioni a livello di aumento dei dolori articolari nei primi mesi di trattamento, comunque non più riscontrabili a 6 mesi. Anche nell’artrite reumatoide nei primi mesi si riscontrava un lieve aumento nella conta delle articolazioni dolenti. La stima della qualità della vita complessiva e dell’attività di malattia rimaneva comunque costante.

Nelle spondiloartriti assiali si riscontrava una lieve fluttuazione nella scala del dolore, a seconda della scala di gravità della malattia. A livello clinico è stata riscontrata invece una situazione di controllo ottimale. Nella psoriasi le alterazioni riscontrate nel primo trimestre erano poi rientrate mostrando stabilità alla fine del semestre considerato.
In conclusione, il profilo di efficacia veniva mantenuto. Il tasso di sospensione della terapia era in linea con quelle di anti-TNF alfa originator, così come il profilo di sicurezza, mostrando un buon dato di sovrapponibilità.

I risultati dello switch da Infliximab e Etanercept a biosimilare

La Dermatologa, Dottoressa Antonella Di Cesare ha quindi illustrato i risultati ottenuti con lo switch nelle patologie dermatologiche, con particolare riferimento alla psoriasi di grado moderata a severa e all’idrosadenite suppurativa.
Lo switch da Infliximab a biosimilare aveva coinvolto un ristretto campione di 22 pazienti trattati a lungo con l’originator. Dopo lo switch, l’86% dei pazienti mostrava segni di miglioramenti. A 5 anni tra gli eventi avversi si riscontrava una reazione lichenoide del cavo orale e il BPCO.

Il passaggio da Etanercept a SB4 era stato invece analizzato su 44 pazienti, di cui 12 naive e 32 in trattamento con l’originator. A 24 settimane di distanza era stato riscontrato una stabilità del quadro clinico con un miglioramento clinico nel 92% dei pazienti. Anche nei naive è stato riscontrato un risultato sovrapponibile a quello conseguito con l’originator.
Per quanto concerne l’utilizzo in pazienti con idrosadenite suppurativa (l’utilizzo dell’Adalimumab è stato introdotto per la patologia nel 2016), ha mostrato una sostanziale stabilità per i pazienti ‘switchati’ e un beneficio clinico ottimale per i naive.

Il Dottor Stefano Gentileschi, della Uoc Reumatologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Siena, ha presentato i risultati dello studio sullo switch da Etanercept originator a SB4 nel trattamento delle patologie infiammatorie articolari. Lo studio si prefiggeva di analizzare la tollerabilità dello switch e la stabilità terapeutica del trattamento. I pazienti switchati erano in cura da almeno 6 mesi con il farmaco originator. Il campione ha incluso 220 pazienti, donne nel 64% dei casi, in trattamento con Etanercept in media da 7 anni. Nel 77% dei pazienti l’Etanercept aveva rappresentato la prima terapia biologica, per il 18% la seconda.

I risultati a 12 mesi mostravano che: 50 pazienti riportavano almeno 1 evento avverso; 19 pazienti avevano sospeso SB4 per inefficacia primaria o secondaria; 11 pazienti sospendevano il trattamento per altre reazioni avverse.
Dei 50 pazienti che avevano riscontrato reazioni avverse: 4 avevano avuto reazione al sito di iniezione; 46 reazioni sistemiche non severe, di cui: 33 riacutizzazioni della malattia articolare, 2 riacutizzazioni di psoriasi, 1 riacutizzazione oculare.
Dei 33 con riacutizzazione della malattia, 13 pazienti erano stati sottoposti a back switch. Di questi, in 9 casi era stato riscontrato un recupero di efficacia, 4 pazienti erano stati invece sottoposti a swap ad altro biosimilare.
Per quanto concerne la persistenza, a 6 mesi era del 99% e dell’89% a 12 mesi.

Infine, il dottor Antonio Vitale, della UOC reumatologia di Siena, ha presentato i risultati di uno studio sul ruolo dei biosimilari nelle uveiti non infettive. L’obiettivo dello studio era quello di analizzare gli effetti dello switch su 37 pazienti, ovvero 64 occhi. I risultati a 3, 6 e 12 mesi hanno mostrato un comportamento simile a quello riscontrato con il farmaco originator quanto a riacutizzazioni uveitiche e spessore della macula. “I biosimilari possono controllare l’infiammazione oculare al pari degli originator, mostrando anche un ottimo profilo di sicurezza” ha concluso il Dottor Vitale.

Elena D’Alessandri