Dolore post operatorio: Italia indietro rispetto al resto d’Europa

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Al questionario del 2006 hanno risposto oltre il 90% delle persone che lo avevano ricevuto, percentuale che è calata nel 2012, con solo il 79,4% delle risposte, di cui 50 non analizzabili. Passando dalle persone agli ospedali, nel 2012 hanno partecipato 289 ospedali, corrispondenti al 43,3% delle strutture italiane. Il confronto tra i dati delinea una situazione davvero allarmante: solo la metà degli ospedali analizzati ha attivato un Servizio del dolore acuto post operatorio (Acute Pain Service), la cui istituzione è stata suggerita da linee guida della Siaarti nel 2010, e che si compone di un team responsabili della gestione del dolore post operatorio, coordinato dall’anestesista.

E non finisce qui. Secondo lo studio, infatti, seppur con differenze anche notevoli tra le Regioni, solo il 10% dei pazienti sottoposti a intervento chirurgico ha ricevuto un trattamento del dolore post operatorio rispondente alle linee guida, che prevedono trattamenti personalizzati e che possono essere controllati dal paziente stesso sotto supervisione medica, grazie al loto carattere di terapie multimodali. Invece delle metodologie suggerite dalle linee guida, infatti, l’Italia utilizza ancora per lo più presidi a infusione fissa e continua. Difficili da giustificare anche i risultati riguardanti la formazione degli anestesisti: i dati mostrati dallo studio dimostrano come solo il 57% degli anestesisti che hanno partecipato alla survey nel 2006 avevano partecipato a corsi di formazione continua sul tema, percentuale che scende al 35% nel 2012. Le cause di questa situazione, che salva solo alcune Regioni, sono da ascrivere, secondo l’articolo, a ragioni di carattere organizzativo, culturale ed economico. Al tema è stata dedicata una conferenza stampa dal titolo “Dolore post operatorio: una sofferenza inutile” lo scorso 14 gennaio, a Milano, presso il Circolo della Stampa, cui hanno partecipato esponenti di varie realtà italiane connesse con la salute: Guido Fanelli, direttore della Unità Operativa di Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica dell’A.O.U. di Parma, membro del CNR e direttore scientifico di Fondazione ANT; Flaminia Coluzzi, aggregato di Anestesia e Rianimazione, Università La Sapienza di Roma; Antonio Corcione, direttore dell’AO di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale Monaldi di Napoli e presidente Siaarti; Adriana Paolicchi, responsabile dell’AO di Anestesia e Ospedale Senza Dolore A.O.U. Pisana e presidente Siared; Rosapaola Metastasio, Agenzia di Valutazione Civica, Cittadinanzattiva – Tribunale Diritti del Malato.

Ha dichiarato Fanelli: «Tutti noi siamo consapevoli che nonostante la riconosciuta preparazione degli anestesisti, i quali hanno il compito istituzionale di garantire l’analgesia in fase post chirurgica, il dolore post operatorio è trattato nella maggior parte dei casi attraverso presidi a infusione fissa. Ciò significa che l’effetto antalgico non è adeguatamente modulato nel tempo, né sufficientemente adattato alle caratteristiche specifiche del paziente, come l’intervento cui è stato sottoposto, la sua massa corporea, il sesso o il metabolismo. Questi presidi non rispondono pienamente neanche ai moderni standard di sicurezza, perché non sono dotati di alcun sistema d’allarme, per esempio per i casi di interruzione del flusso di medicinale. La sfida che dobbiamo affrontare è quindi anzitutto di natura culturale: tutti i professionisti della salute, dal chirurgo all’anestesista, senza tralasciare l’infermiere, devono convincersi che l’analgesia personalizzata, che contempli anche il coinvolgimento del paziente, non rappresenta un maggior dispendio di risorse e di energie, ma al contrario un efficientamento economico e un’ottimizzazione, in termini di appropriatezza terapeutica e della gestione del paziente post chirurgico». I dati riportati nello studio trovano una conferma anche nei dati di un monitoraggio condotto dal Tribunale per i diritti del malato di Cittadinanzattiva nel 2014, intitolato In-Dolore (http://www.cittadinanzattiva.it/form/salute-in-dolore/public/), che ha indagato l’attuazione di alcuni aspetti della legge 38/10 e il rispetto del diritto a non soffrire inutilmente in 46 ospedali, per un totale di 214 reparti e 711 persone ricoverate. L’adesione al monitoraggio è stata spontanea.

Ecco cosa hanno scoperto: «nel 31% delle chirurgie ortopediche non sono presenti protocolli operativi per la gestione del dolore postoperatorio. Nei reparti di chirurgia ortopedica si usano strumenti per la rilevazione e valutazione periodica del dolore, ma solo 2 strutture su 10 hanno provveduto a formare sulla gestione del dolore almeno il 90% del personale. Sul fronte dei farmaci», prosegue Rosapaola Metastasio, project manager del Progetto di Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato, «soltanto metà degli ospedali ha realizzato una valutazione periodica sul consumo e sull’appropriatezza d’uso dei farmaci analgesici utilizzati. Il dolore viene registrato quasi sempre in cartella clinica e trattato tempestivamente con terapie farmacologiche, ma in un caso su due non ne viene rilevata l’intensità con strumenti ad hoc. Inoltre nel 31% delle Pediatrie monitorate degli ospedali rispondenti non prevede, in caso di interventi chirurgici e/o in caso di esami invasivi, la presenza del genitore sia in sala preanestesia che in sala risveglio. Dalle interviste ai degenti, il quadro emerso è ancor peggiore: soltanto nel 59,5% dei casi almeno un genitore era presente al risveglio del bambino, un dato importante per via della connessione tra psiche e percezione del dolore».

Prosegue Metastasio: «il dolore dopo un intervento chirurgico può e deve essere controllato e ridotto: accelera il ritorno alla vita ordinaria, migliora la qualità della degenza e in generale della vita. Governo e Regioni sono impegnati nell’umanizzazione delle cure e lo affermano nel Patto per la Salute. L’attenzione al dolore dopo un intervento chirurgico, è evidente, ne è parte integrante. Per questo serve investire di più nella formazione dei professionisti, nel miglioramento dell’organizzazione dei servizi e nel monitoraggio costante da parte delle organizzazioni di cittadini». Ma se il problema è innanzitutto di carattere formativo e culturale, è necessario incidere in qualche modo in questa direzione: il dato relativo alla formazione continua la dice infatti lunga sulla situazione attuale. E qui si inserisce il progetto Change Pain Acute, lanciato da Grünenthal Italia proprio durante la conferenza del 14 gennaio: si tratta di un progetto che promuoverà la diffusione di conoscenze scientifiche rigorose, tra i professionisti della salute, sulla gestione ottimale del dolore post operatorio, e al contempo una maggiore attenzione dei cittadini per il proprio diritto a non soffrire, anche a seguito di un intervento chirurgico.

Stefania Somaré