«Le ernie sono una complicanza frequente delle procedure chirurgiche eseguite sull’addome», spiega Pierluigi Ipponi (nella foto), presidente dell’Italian Society of Hernia and Abdominal Wall Surgery (ISHAWS), nel corso del 119° congresso italiano di Chirurgia Generale SIC, svoltosi a Napoli. «Con il termine ernia si indica una fuoriuscita di visceri dalla cavità che normalmente li contiene.
A livello addominale si distinguono due tipologie: le primitive, legate a problemi congeniti nella struttura del collagene (la principale proteina del tessuto connettivo), che causano un indebolimento strutturale della parete addominale, e quelle secondarie (dette anche post incisionali o laparoceli), con un’incidenza tra il 15 e il 32% in pazienti sottoposti a interventi chirurgici sia tradizionali sia mininvasivi e facilitate da un’infezione del sito chirurgico».
L’impianto biologico è utile proprio per la riparazione di ernie addominali, come pure per la ricostruzione del pavimento pelvico e della parete toracica, oltre che in chirurgia colo-rettale.
Oggi in Italia sono circa 2 milioni gli interventi chirurgici convenzionali (open) che coinvolgono la parete addominale e che nel 28% dei casi danno luogo all’insorgenza di una pericolosa conseguenza come le ernie addominali. La riparazione è una delle operazioni chirurgiche più praticate al mondo e viene eseguita con il supporto di protesi che possono essere biologiche o sintetiche.
Le protesi biologiche sono una categoria molto ampia, con caratteristiche molto diverse e differiscono per l’origine del materiale (umano, bovino, suino) e del tessuto del quale sono costituite, ossia derma, pericardio, sub-mucosa.
«Questo tipo di protesi», continua Pierluigi Ipponi, «permette una migliore colonizzazione da parte delle cellule del paziente per riparare la lesione ed evitano la formazione di tessuto cicatriziale».