Nel corso della tavola rotonda “La colpa medica dopo la legge Gelli-Bianco e le Sezioni Unite della Corte di Cassazione”, tenutasi lo scorso 4 maggio 2018 presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, illustri esperti della materia hanno analizzato in particolare gli aspetti penalistici, delineando un quadro d’insieme circa la responsabilità in cui possono incorrere gli esercenti le professioni sanitarie.
Nello specifico la discussione ha fatto riferimento alla recente decisione della Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sull’applicazione del neo introdotto articolo 590 sexies c.p. (“Responsabilità colposa per morte o lesione in ambito sanitario”).
La questione della medicina difensiva
Fino ai primi anni ’70 la giurisprudenza prevalente riteneva pacificamente applicabili in ambito penalistico i parametri di cui all’articolo 2236 del codice civile, che prevede la responsabilità del prestatore d’opera solo per dolo o per colpa grave, in ipotesi di speciale difficoltà risolutoria di problemi tecnici.
Senonché, la Corte Costituzionale (pronunciatasi con sentenza n. 166 del 1973) è stata chiamata a esprimersi sull’opportunità dell’utilizzo di simili criteri civilisti in ambito penale.
I giudici, pur affermando la legittimità dell’impostazione giurisprudenziale, ne hanno proposto un’interpretazione parzialmente differente, sottolineando la necessità di verificare in concreto la speciale difficoltà della diagnosi e del trattamento e limitando l’operatività dell’art. 2236 ai soli casi di imperizia, e non anche ai casi di negligenza e imprudenza.
Negli anni successivi la giurisprudenza di legittimità si è discostata da simile interpretazione e ha ritenuto i parametri civilistici non più applicabili in ambito penale, superando così la distinzione tra colpa lieve e colpa grave.
Tale orientamento ha dunque operato una scelta di fondo: l’orientamento – come sottolineato in occasione della tavola rotonda dalla relatrice dott.ssa Ombretta Di Giovine (ordinario di Diritto Penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Foggia) – verso una sorta di “democratizzazione” del sapere scientifico in ambito medico, rendendo il medico meno “intoccabile” seppure la sua attività sia connotata da un livello di tecnicità e conoscenze molto elevato.
Le pur pregevoli intenzioni che hanno animato l’interpretazione esposta, data la possibilità per i medici di incorrere in responsabilità anche in ipotesi di colpa lieve, hanno peraltro condotto alla nascita di un problema, sia in termini di contenimento sia in termini di risoluzione: la medicina difensiva.
Una definizione molto chiara viene dall’Office of Technology Assessment (USA Congress): «la medicina difensiva si verifica quando i medici ordinano test, procedure e visite, oppure evitano pazienti o procedure ad alto rischio, principalmente (ma non necessariamente) per ridurre la loro esposizione a un giudizio di responsabilità per malpractice. Quando i medici prescrivono extra test o procedure per ridurre la loro esposizione a un giudizio di responsabilità per malpractice, essi praticano una medicina difensiva positiva; quando invece evitano certi pazienti o procedure, praticano una medicina difensiva negativa».
Entrambi i tipi di medicina difensiva rischiano quindi di ostacolare la miglior cura del paziente, laddove rappresentano un disservizio, pur sotto differenti aspetti.
Le scelte del legislatore
Alla luce del ricordato panorama giurisprudenziale, sempre più rigido nella delineazione dei contorni della colpa medica punibile, sono emerse diverse proposte di riforma da parte del mondo accademico; un esempio è offerto dalla proposta di legge avanzata dall’Alta Scuola Federico Stella sulla giustizia penale: il moderatore della tavola rotonda, dott. Gabrio Forti (preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica, ordinario di Diritto Penale e Criminologia), tra gli estensori dell’indicata proposta, ha ricordato l’analisi di ricerca empirica da cui poi è nata l’iniziativa, rilevando quanto fosse riduttivo, a fronte di un incidente (dovuto a malpractice), l’approccio accusatorio che concentrasse tutta la responsabilità e l’eziologia di ciò che era accaduto sul singolo medico.
Dunque, con decreto legge 13 settembre 2012, n. 158 (noto come Decreto Balduzzi), il legislatore è intervenuto a normare i limiti della responsabilità penale in campo medico con lo scopo di arginare il fenomeno della medicina difensiva, offrendo indicazioni chiare e precise a favore dei soggetti coinvolti: per i medici, che devono scegliere trattamenti sanitari senza timori di rappresaglie; per i giudici, che devono valutare i casi concreti e che, come sottolineato dal dott. Riccardo Zoia (ordinario di Medicina Legale e delle Assicurazioni presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano e presidente della Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni), devono avere dei parametri chiari e certi per consentire la ripetibilità delle analisi; infine per i pazienti, che possono fruire di un sistema clinico assistenziale più snello, funzionante e, sotto certi aspetti, coraggioso.
Fondamentale è l’articolo 3, comma 1, del citato decreto, che per la prima volta ha considerato a livello normativo il parametro delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, sancendo la non responsabilità per colpa lieve del medico che ne faccia applicazione nell’espletamento della propria attività (e reintroducendo la distinzione tra colpa lieve e colpa grave): “L’esercente la professione che nello svolgimento della propria attività si attiene alla linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve (…)”.
Fatto salvo il caso in cui le specificità della situazione richiedano di discostarsi dalle linee guida in ragione di un’evidenza macroscopica e immediatamente riconoscibile.
Il decreto Balduzzi, tuttavia, ha avuto vita breve: nel marzo del 2017 è stata approvata la legge 8 marzo 2017, n. 24, nota come legge Gelli-Bianco, della quale si sottolineano gli articoli 5 e 6, rispettivamente “Buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida” e “Responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria”.
La prima disposizione prevede che, nell’esecuzione di prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, l’esercente la professione sanitaria debba attenersi alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate sul sito internet dell’Istituto Superiore di Sanità e aggiornate dal Sistema nazionale per le linee guida, istituito con decreto del Ministro della Salute.
La norma individua anche i soggetti che devono elaborare simili linee guida (enti e istituti pubblici e privati), nonché le società scientifiche e le associazioni tecnico-scientifiche di professioni sanitarie iscritte in apposito elenco, istituito anch’esso per decreto del Ministro della Salute.
Innovativa pare, inoltre, la disposizione secondo la quale anche la metodologia adottata deve essere parametrata a standard predefiniti che devono essere resi pubblici: tali sono, appunto, le linee guida “certificate” alle quali il singolo operatore sanitario dovrà conformarsi.
Infine, merita considerazione il richiamo all’adeguamento al caso specifico, obbligando il medico a discostarsi dalle linee guida nel momento in cui lo stato patologico del paziente in questione lo richieda e restituendo quindi dignità alla sua figura e al suo operato, non eccessivamente irrigidito in schemi predeterminati.
La seconda disposizione che rileva ai fini della trattazione è il già citato articolo 6, che introduce nel codice penale il nuovo articolo 590 sexies c.p., di cui vale la pena riportare il testo: “Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 (lesioni personali colpose, omicidio colposo) sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.
Il legislatore ha dunque espressamente sancito che l’ipotesi di attività imperita è l’unica idonea a escludere la punibilità, restando al contrario ferma la responsabilità del medico nei casi di negligenza e imprudenza.
Breve focus sulle linee guida
Con la legge da ultimo citata si è quindi inteso rinforzare l’autorevolezza del sapere tecnico-scientifico in campo medico, richiedendone una raccolta omogenea, riconosciuta e secondo modalità verificabili.
Il tutto sulla scorta di un trend legislativo (positivo a opinione della dott.ssa Di Giovine) che andava sempre più affermando l’opportunità di un riferimento.
Il legislatore, peraltro, non ha inteso creare – attraverso la previsione di tali raccomandazioni – un sistema di regole vincolanti e cogenti per il medico: come puntualmente sottolinea la Corte di Cassazione con l’ultima pronuncia resa in argomento, di cui si diceva in apertura, non si tratta di uno “scudo” contro ogni ipotesi di responsabilità, data la necessaria valutazione di adeguatezza al caso specifico per poterne affermare la precettività: “dunque regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente”.
È un punto molto importante da tenere presente.
Il dott. Zoia, infine, ha evidenziato la difficoltà di creare linee guida accreditate, data l’infinità di casi concreti prospettabili, diversi tra loro e che necessitano di una disciplina ad hoc: linee guida che si prefiggono di essere applicate a livello generale spesso richiedono un’accurata opera di costruzione, che può durare anni.
L’attuale disciplina alla luce delle Sezioni Unite: applicazione dell’articolo 590 sexies c.p. e risoluzione dei profili intertemporali.
Ci si sofferma ora sull’interpretazione proposta dalle pronuncia a Sezioni Unite 22 febbraio 2018, n. 8770.
Illuminante, in proposito, è stato l’intervento del relatore dott. Giovanni Canzio, primo presidente emerito della Suprema Corte di Cassazione, il quale ha descritto l’animo con cui i giudici sono giunti alla decisione in commento; altrettanto chiare sono le parole usate dal giudice estensore nella pronuncia: “l’interpretazione più accolta è destinata ad ampliare il novero dei comportamenti che si sottraggono legittimamente all’intervento del giudice penale e a far risaltare concretamente l’intuibile volontà del legislatore di proseguire lungo la direttrice segnata dal decreto Balduzzi; soprattutto con la finalità di impedire che l’abrogazione di questo apra scenari di automatica reviviscenza dei pregressi indirizzi interpretativi che, per la loro estrema severità nel passato, sono all’origine del porsi del tema delle risposte difensive dei sanitari”.
Il testo della norma è già stato riportato, occorre ore vederne l’interpretazione dei giudici di legittimità.
La Corte, dunque, nell’interpretare la novella legislativa, ha individuato la volontà normativa di pretendere, senza concessioni, che l’esercente la professione sanitaria sia non solo accurato e prudente nel seguire l’evoluzione della patologia, ma soprattutto preparato sulle leges artis e impeccabile nelle diagnosi, aggiornato in relazione alla nuove acquisizioni scientifiche e capace di fare scelte ex ante adeguate e personalizzate.
Nel testo di legge vigente (Gelli-Bianco) non si fa riferimento al grado della colpa, diversamente da quanto invece si prevedeva all’articolo 3 del Decreto Balduzzi.
I giudici hanno, quindi, ritenuto necessario occuparsi della questione per delineare la portata normativa della nuova legge, partendo sì dal dato letterale della norma, ma non rimanendo ancorati a quest’ultimo bensì analizzandolo unitamente alle precedenti scelte del legislatore e con le valutazioni giurisprudenziali che si sono sviluppate e consolidate negli ultimi decenni.
Sancisce, poi, che riprendendo sempre orientamenti consolidati, gli episodi connotati da colpa grave sono quelli in cui l’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo e alle condizioni del paziente.
Inoltre, la demarcazione tra gravità e lievità della colpa richiama una valutazione di tipo oggettivo quanto soggettivo: si valuteranno le condizioni dell’agente e il suo grado di specializzazione, la problematicità della vicenda, le difficoltà obiettive di cogliere e collegare le informazioni cliniche, il grado di atipicità e novità della situazione, la motivazione della condotta e la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa.
Per concludere, quindi, quando l’esercente la professione sanitaria potrà incorrere in responsabilità? La Corte fissa così l’ambito applicativo: l’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica:
– se l’evento si è verificato per colpa, anche “lieve”, da negligenza o imprudenza (in caso di imperizia solo per colpa grave, vedi lettera d);
– se l’evento si è verificato per colpa, anche “lieve”, da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;
– se l’evento si è verificato per colpa, anche “lieve”, da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto;
– se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni, di linee guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico.
Conclusione
La materia è di non facile comprensione, soprattutto nel momento in cui si incontrano mondi diversi: quello del sapere scientifico e quello del tecnicismo giuridico.
Sono apprezzabili gli sforzi per creare un palcoscenico in cui queste due branche possono incontrarsi. Di certo il ruolo del legislatore è fondamentale, perché la società gli affida il compito di trovare gli strumenti perché ciò avvenga. Senza la necessità che siano i giudici a dover intervenire per porre chiarezza sulle norme e sulla loro applicazione.
Quando ciò non avviene, spiega il presidente emerito Canzio, la suprema corte è chiamata a fare un’opera di nomofilachia tra contrasti interpretativi di una norma. Pare ingiusto, prosegue il magistrato, chiedere alla corte una semplice opera di “ortopedia delle scelte” del legislatore, ma una vera presa di coscienza della ratio e dei fini delle norme, con il requisito fondamentale della compatibilità con il dettato costituzionale.
Anche il dott. Renato Balduzzi (consigliere del CSM, ordinario di Diritto Costituzionale e ministro della Salute che diede il nome al decreto di cui sopra) ha sottolineato l’inevitabile ruolo giurisprudenziale nel definire l’argomento, visto il considerevole numero di casi dalle mille sfaccettature che si possono presentare nella realtà concreta quando si viene a contatto con il sapere scientifico.
Opportuno, come sottolinea Balduzzi, sarebbe l’utilizzo di relazioni ministeriali complete ed esaustive, che possano porre chiarezza sulla ratio, sull’applicazione e sugli effetti desiderati di alcune norme, che per necessità devono essere generali e astratte.
Le generazioni precedenti “scolpivano” norme chiare e precise – appunta Balduzzi – invece di stratificarle, come è usanza attuale.
A titolo esemplificativo corre in aiuto il citato articolo 2236 c.c.: la relazione illustrativa del codice civile (1942) ne spiega la portata, giustificandone il dettato normativo per fare fronte a due opposte esigenze, quella di non mortificare l’iniziativa del professionista per timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista.
Tenuti presenti, dunque, i cambiamenti e il progresso scientifico, si auspica che il legislatore si faccia carico di simili problematiche, lasciando alla giurisprudenza il ruolo di risolutrice di casi concreti e non di creatrice del diritto.
Alessandro Brigatti