La Value Based Healthcare nelle cronicità

Il sistema salute attuale presenta complessità sempre maggiori, dinanzi alle quali appare opportuno e urgente fare il punto per comprendere come procedere garantendo universalità e qualità delle cure.
Il nostro SSN deve affrontare importanti sfide: da una parte il rapido invecchiamento della popolazione, dall’altra l’emergere, sempre crescente, di malattie croniche e comorbidità, cui si associa la difficile interazione tra specialisti e tra ospedali e territorio, la cui gestione è parte di un piano più complesso di cui la salute rappresenta soltanto un tassello.

«Gli italiani affetti da malattie croniche sono 24 milioni (il 40% della popolazione) e gravano sul SSN per circa 66,7 miliardi di euro, con stime di crescita per il 2028 a 70,7 miliardi.
Gli over 65 oggi drenano il 72% della spesa sanitaria complessiva, con previsioni di crescita importanti nel breve-medio termine. A questa situazione, già di per sé allarmante, si uniscono crescenti disuguaglianze a livello regionale nella qualità dell’offerta assistenziale, ovvero misure di prevenzione, ritardi nelle diagnosi e qualità dei trattamenti», ha sostenuto Andrea Silenzi, del Centro di Ricerca e Studi sulla Leadership in Medicina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, nell’introdurre la giornata di riflessione su “La Value Based Healthcare nel Contesto della Cronicità”.

Le malattie croniche hanno un impatto sociale e sulle famiglie che richiede un ripensamento dell’assistenza, che dovrebbe andare verso la presa in carico della persona nella sua totalità e non solo della singola malattia.

Lo stato dell’arte del piano nazionale cronicità

Per far fronte a questa situazione, nel 2016 è stato varato il primo Piano Nazionale per le Cronicità, che identificava un nuovo modo di gestire le malattie croniche partendo dalla prevenzione e dalla diagnosi precoce, passando per la gestione integrata dei percorsi di cura, con PDTA condivisi e codificati per i vari stadi delle patologie, sottolineando anzitutto la centralità della persona e l’empowerment del paziente, che diventa protagonista di percorsi di cura personalizzati.

A tre anni di distanza, tuttavia, solo sei Regioni hanno siglato la delibera di attuazione del piano, tre Regioni sono in via di attuazione, mentre nelle restanti undici (corrispondenti ad aree geografiche in cui la necessità d’intervento sarebbe prioritaria) non è stato fatto nulla, con conseguente aumento delle diseguaglianze tra Regione e Regione.

Di fronte a quello che si configura come un cambio di paradigma e al contempo un’urgenza, al fine di ottenere migliori esiti di salute per i pazienti, contenere le risorse per la crescita sostenibile del SSN e superare le disuguaglianze esistenti e ingiustificate ancora presenti nei PDTA bisogna passare da una medicina spesso ancora a prestazione a un approccio basato sul valore, con percorsi continuativi di presa in carico assistenziale, misurazione degli outcome e dei costi, insieme a un sistema di pagamento in base agli esiti. Si tratta proprio della Value Based Healthcare.

«Ci sono ancora molti aspetti da ottimizzare per quanto concerne l’assistenza a lungo termine», ha sostenuto Tonino Aceti, portavoce della Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche. «Spesso non c’è copertura per le spese dei pazienti a lungo termine, si pensi che su una spesa complessiva di 15 miliardi di euro per l’assistenza sanitaria a lungo termine, 4 miliardi sono a carico delle famiglie.

Le risorse non sono mai sufficienti, è vero, ma bisognerebbe in primis cercare di riallocare quelle disponibili in modo più efficiente. Il piano nazionale per la cronicità procede a rilento, mettendo in luce il fatto che mezza Italia non garantisce i LEA. Occorre, inoltre, investire sul personale. Nel 2000 l’OMS ha sottolineato l’importanza della figura dell’infermiere di famiglia o di comunità, ma ancora oggi la situazione italiana è a macchia di leopardo».

«Nei prossimi dieci anni la richiesta di servizi sanitari aumenterà del 20%, complici l’invecchiamento della popolazione, l’introduzione di farmaci innovativi e l’aumento dell’attività clinica», ha incalzato Luigi Bertinato, coordinatore della Clinical Governance dell’Istituto Superiore di Sanità. «La cronicità, che porta con sé fragilità, demenze, multimorbidità, rappresenta una sfida enorme: basti pensare che il 25% di queste patologie sono prevenibili, con un risparmio enorme per il sistema. In questa partita, ovviamente, l’importanza dei dati è prioritaria».

La prevenzione è, infatti, il primo pilastro del piano nazionale per la cronicità, e va vista come investimento per il futuro e non come voce di costo. Occorre lavorare sull’empowerment del paziente.
«La prevenzione è ancora oggi il grande non finanziato, con un valore del 3-4% della spesa sanitaria complessiva», ha sostenuto Ranieri Guerra, Assistant Director General for Strategic Initiatives dell’OMS.

L’osteoporosi e le fratture da fragilità ossea: un’epidemia silenziosa

Sono 4 milioni gli italiani soffrono di osteoporosi, ogni anno ci si scontra con oltre 100 mila casi di fratture di femore causate da fragilità ossea, con una spesa connessa per il sistema di 4 miliardi di euro, che in poco più di un decennio potrebbe triplicare. Si tratta di una vera e propria epidemia silenziosa, rispetto alla quale, tuttavia, esistono farmaci efficaci e attività importanti di diagnostica e prevenzione che possono prevenire i rischi di fratture.
Basti pensare, peraltro, che il 25-30% degli anziani che contrae una frattura di femore muore entro l’anno.

Benché in molti casi siano situazioni prevenibili, la mancanza di una regolamentazione associata a interventi sporadici e frammentati non consente un miglioramento del quadro.
Francesco Falez, direttore UOC Ortopedia e Traumatologia dell’Ospedale Santo Spirito in Sassia di Roma, ritiene si tratti in prevalenza di problemi organizzativi. I reparti ospedalieri sono pieni e c’è carenza di organico. La prevenzione, poi, è una questione che deve essere messa in campo dai medici di medicina generale, con i quali si vorrebbe maggiore collaborazione sia sul fronte della prevenzione sia nel postoperatorio, anche per garantire continuum assistenziale e maggiore aderenza alle terapie.

«È essenziale un cambio di paradigma: dopo l’intervento chirurgico è fondamentale un continuum terapeutico-assistenziale per evitare nuove fratture», ha sostenuto.
Diversamente da quanto accade in alcune aree terapeutiche – come quella cardiovascolare, in cui la presa in carico e il trattamento del paziente sono scanditi da percorsi e procedure standardizzate – nell’ambito dell’osteoporosi e delle fratture da fragilità questo percorso non è ancora stato organizzato in un’ottica di sistema assistenziale a livello nazionale.
Esistono esempi a livello internazionale, quali i Fractures Liaison Services o le Fractures Unit, ai quali l’Italia dovrebbe ispirarsi per costruire strutture di continuità assistenziale e terapeutica multidisciplinari organizzate come unità dipartimentali in prossimità dei centri di Ortopedia o dei Pronto Soccorso ortopedici.

Le esperienze premianti di Veneto ed Emilia-Romagna

Virtuosa in tal senso l’esperienza del Veneto, raccontata da Maurizio Rossini, direttore della UO Reumatologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona, dove si è stimata una riduzione delle fratture di femore del 20% in pochi anni grazie a un coinvolgimento importante di farmacisti e medici di medicina generale.
Un altro esempio di best practice è stato presentato da Giovanni Gelmini, direttore del Dipartimento delle Cure Primarie del Distretto della Valle Taro e Ceno – Ausl Parma: dove i pazienti sono stati classificati per classi di rischio (di ospedalizzazione) e sono stati messi in campo interventi più efficienti, si è ridotto il numero di accessi al Pronto Soccorso.

L’importanza del coinvolgimento attivo del paziente

Appare dunque fondamentale ripensare alla base il sistema assistenziale, facendo un lavoro di coinvolgimento ed empowerment del paziente, che diventa soggetto attivo.
Soprattutto per gli anziani questo percorso rappresenta una grande sfida, ma anche un’opportunità.
Bisogna insistere, quindi, sulla preparazione e sulla consapevolezza del paziente, proprio perché questo path può garantire maggiore aderenza alle cure e migliori outcome in termini di salute e sostenibilità del SSN.
«Quanto più c’è coinvolgimento attivo del paziente – che implica maggiore fiducia in sé, nel farmaco e nel clinico – tanto più si riscontra aderenza terapeutica», ha sostenuto Guendalina Graffigna, professore ordinario, direttore EngageMindsHub, Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Le sfide da superare sono veramente molte e per raggiungere un nuovo modello di sanità sostenibile è importante il gioco di squadra di tutti i player coinvolti.

Elena D’Alessandri