Nel mese di luglio è stata pubblicata l’indagine effettuata da Italia Longeva, rete nazionale di ricerca sull’invecchiamento e la longevità attiva facente parte del Ministero della Salute, sull’assistenza domiciliare nel nostro Paese. Il titolo di questa indagine, presentata nel corso dell’annuale evento “Long-Term Care – Gli Stati Generali dell’Assistenza a lungo termine”, dice molto sui suoi contenuti: “La Babele dell’assistenza domiciliare in Italia: chi la fa, come si fa”.
Punto focale dell’indagine, condotta su fonti ministeriali e studiando i modelli di assistenza domiciliare presenti in 12 aziende sanitarie presenti in 11 Regioni italiane, è che l’assistenza domiciliare è ancora un privilegio per pochi e soprattutto che prestazioni offerte, costi, ore di assistenza e così via cambiano fortemente a seconda delle aree del Paese considerate. Insomma, si tratta di una vera Babele.
L’Italia mostra di essere carente in questo ambito anche se è l’alternativa più efficiente ed economicamente più sostenibile al modello di cura che vede l’ospedale al suo centro: solo il 2,7% degli over 65 che ne avrebbero bisogno (ovvero 370.000 anziani) possono infatti goderne, contro percentuali che in Europa arrivano anche al 20%, se si considerano alcuni Paesi del Nord.
E non finisce qui. Perché ciò che dovrebbe stupire ancora di più è che su un panel di 31 prestazioni di alta valenza clinico-assistenziale erogabili a domicilio, solo poche Asl di quelle analizzate mostrano di fornirle tutte: Salerno e Catania sono in cima alla classifica con tutte le prestazioni erogate, seguite da Monza e Brianza e Milano.
Un altro motivo di discordanza sono le ore di assistenza fornite ai pazienti: queste passano dalle 40 di Potenza alle 9 ore di Torino. Infine, disparità ci sono anche nell’apporto degli enti privati nell’erogazione dei servizi, con percentuali del 97% a Milano contro lo 0% di Reggio Emilia o della Provincia Autonoma di Bolzano. Neanche a dirlo, esistono aree del Paese dove l’assistenza domiciliare non esiste proprio.
«Questa fotografia», commenta il professor Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva, «non serve per stilare una classifica delle Regioni o delle Asl più virtuose, ma piuttosto per evidenziare un dato di fondo: l’Italia non ha ancora dato una risposta univoca né ha individuato un modello condiviso per la gestione della più grande emergenza demografica ed epidemiologica del presente e del futuro. La nostra indagine dice anzitutto che l’assistenza domiciliare in Italia è una vera e propria Babele, nella quale ogni area del Paese parla una lingua diversa e sembra non esserci alcun dialogo».
«Tuttavia», prosegue Bernabei, «da questa disomogeneità emergono due tendenze, che possono suggerire altrettante strategie per la domiciliarità che abbiamo il compito e la responsabilità di costruire. Anzitutto, tranne rare eccezioni, le prestazioni sono quasi sempre insufficienti nelle aree in cui è meno sviluppata l’integrazione fra servizio sanitario e operatori sociali dei Comuni; in secondo luogo, il costo annuo per assistito a domicilio non cresce in maniera proporzionale al numero di ore dedicate a ogni paziente: al di sopra di una certa soglia diminuiscono le successive richieste di assistenza e quindi sembra innescarsi un’economia di scala che fa decrescere i costi marginali.
In altre parole, al di sopra di un certo numero di ore “di qualità”, che devono essere considerate quelle ottimali, gli anziani iniziano a stare meglio e l’assistenza domiciliare si conferma un ottimo investimento collettivo sulla salute dei nostri padri e dei nostri nonni».
Pertanto è necessario che si instauri un maggiore dialogo tra sanità e operatori sociali, entrambi parte fondante dell’assistenza domiciliare, e che si abbia il coraggio di investire in numero di ore date ai pazienti a casa, perché solo arrivando a un numero adeguato l’assistenza domiciliare può diventare economicamente sostenibile e portare ai giusti risultati in termini di salute degli anziani.
Stefania Somaré