Cancro: come rispondere all’aumento previsto di casi?

Pier Carlo Gentile

È stata presentata la settima edizione della pubblicazione “I numeri del cancro in Italia – 2017”, il cui obiettivo è fotografare la situazione oncologica nel nostro Paese.
Tra i dati riportati, quello che più colpisce è che nelle Regioni del Sud, a fronte di una minore incidenza delle malattie oncologiche, la mortalità risulta essere maggiore. Viene naturale chiedersene il motivo.
Secondo Piercarlo Gentile (nella foto), direttore medico del Centro di Radioterapia ad Alta Specializzazione UPMC San Pietro FBF e responsabile della Radioterapia dell’Ospedale San Pietro Fatebenefratelli di Roma, le ragioni sono principalmente due: «una minore disponibilità di presidi sanitari sia per effettuare una diagnosi precoce sia per iniziare l’eventuale trattamento. Ciò si traduce in un ampliamento delle liste d’attesa e questo ritardo nella diagnosi e nella cura è responsabile dell’aumento della mortalità».
Un problema serio. Si stima che entro il 2030 si avranno circa 25 milioni di nuovi casi di malattie oncologiche. Questa impennata porterà con sé un sensibile aumento della richiesta di trattamenti, che a sua volta si tradurrà in un aumento della spesa sanitaria.

La questione quindi è come rendere sostenibile la situazione, individuando una possibile soluzione nel potenziamento dei centri di radioterapia oncologica. Questo tipo di trattamento si è infatti dimostrato necessario in più del 50% dei casi ed è finanziariamente sostenibile, avendo evidenziato un buon equilibrio del rapporto costi/benefici.
Se si traccia una mappa degli apparecchi per radioterapia (acceleratori lineari) sparsi nel mondo, si scopre però che solo il Nord America raggiunge gli standard che servirebbero per rispondere all’aumento della domanda. Il Nord Europa ha una distribuzione sufficiente, mentre il Sud è decisamente sotto la media.

«D’altronde questa situazione si ritrova anche in Italia», spiega Gentile, che riporta alcuni dati: a parità di popolazione, nel Nord Italia c’è circa il doppio degli apparecchi per radioterapia rispetto al Sud. Il che genera liste d’attesa e spinge i pazienti a spostarsi al Nord per le cure. Questi spostamenti costano allo Stato circa 2 miliardi di euro, ma che soprattutto si traduce in spese aggiuntive per le famiglie: due fattori che, insieme, contribuiscono a impoverire i territori del Meridione, visto che la sanità costituisce circa il 70% del budget regionale.
La migrazione sanitaria, inoltre, mette in evidenza un ulteriore aspetto: essendo frutto di una mancanza di disponibilità di cure, si ripercuote soprattutto sulle famiglie meno abbienti e quindi più deboli, acuendo le diseguaglianze sociali in territori già penalizzati da disoccupazione e carenza cronica di infrastrutture.

Quali soluzioni adottare? Una via possibile è rafforzare e in parte sviluppare l’interazione tra i centri di radioterapia oncologica e aumentare il numero dei centri nel Sud, con l’intento di sviluppare una rete specialistica della radioterapia.
Necessario anche trasferire esperienze e professionisti su territori che ne sono sprovvisti, il che contribuirà all’aumento di posti di lavoro qualificati nelle Regioni meridionali.
Certo, servono investimenti, perché il primo passo per creare questa rete è l’aumento dei macchinari ad alta tecnologia da utilizzare nelle radioterapie. Il passo successivo è utilizzare la tecnologia digitale per spostare, quando necessario, i dati sanitari sensibili come per esempio immagini TAC, RM e PET dai centri periferici a quelli ad alta specializzazione per un consulto. Questo almeno nei casi più complessi. Una volta stabilita l’indicazione terapeutica, è essenziale organizzare il percorso terapeutico nei minimi dettagli, per assicurare efficienza, evitare sprechi e soprattutto per evitare di mandare allo sbaraglio intere famiglie, spinte dall’ansia generata da diagnosi psicologicamente pesanti».

Dove possiamo trovare le risorse necessarie? Piercarlo Gentile ha una sua idea: «Occorre abbandonare il concetto di sistema sanitario nazionale pubblico che si contrappone a una sanità privata accreditata. Questo modello andava bene quando il nostro Ssn era ricco, ora però non lo è più. È necessario uscire dalla logica di divisione tra strutture del Ssn e quelle private accreditate, integrando le risorse strutturali presenti sul territorio sia che siano pubbliche sia che siano private accreditate, sottoponendo entrambe a una logica di certificazione di qualità. Un po’ sul modello dell’accreditamento Joint Commission International, ente internazionale indipendente di accreditamento per la sicurezza e la qualità delle strutture sanitarie. Lo Stato dovrebbe farsi ente terzo, che giudica allo stesso modo tutte le strutture ospedaliere, accreditando solo quelle che rispettano i più alti standard di qualità. In questo modo le risorse economiche salterebbero fuori perché gli sprechi sarebbero davvero eliminati».

Stefania Somaré