Il rapporto tra medicina e tecnologia è da sempre molto stretto. In un circolo virtuoso, la possibilità di dotarsi di strumenti ha da sempre comportato un miglioramento della medicina e dell’azione del medico e il miglioramento delle prestazioni e della qualità (ottenuto grazie alla tecnologia) ha portato alla necessità/richiesta/ideazione di nuove soluzioni tecnologiche per poter fare un ulteriore passo.

La tecnologia in sanità è quasi sempre risposta a un bisogno e solo in rarissimi casi ideazione di una mente geniale o di un “non clinico”: d’altra parte, chi può avere la pretesa di trovare la soluzione a un problema che non c’è?

Con questo approccio diventano fondamentali due considerazioni: da un lato, è necessario saper comunicare la propria necessità, rendere evidente il proprio bisogno e le proprie peculiarità, cosicché l’azione dell’interlocutore possa essere efficace e appropriata risposta (restituire “ciò che serve”), dall’altro bisogna avere la coscienza che la tecnologia non potrà mai essere sostitutiva dell’uomo e quindi, come tale, deve essere conosciuta, giudicata e valutata.

La nostra società è culturalmente pervasa dall’idea che la tecnologia sia sostitutiva dell’uomo, che possa essere LA soluzione al problema contingente. In sanità per ora, per fortuna, la tecnologia viene ancora vista come supporto all’azione del clinico, che in tutto il processo è chiamato a mettere in gioco la propria umanità, la propria cultura e la propria sensibilità.

Il ruolo del tecnico (l’ingegnere…) è sapere interpretare correttamente il bisogno espresso – e ogni tanto quello non espresso – per poter individuare insieme al clinico la riposta più corretta, la soluzione tecnologica esistente più adatta oppure la possibilità di costruire qualcosa di nuovo che possa fornire tale risposta. Come capita anche in altri campi dell’ingegneria, serve a dare fisicità all’idea di altri. Ruolo tutt’altro che semplice, perché la molteplicità delle specialità cliniche, delle problematiche da affrontare e – ammettiamolo – le condizioni al contorno del nostro Servizio Sanitario ci costringono a trovare una soluzione … sostenibile a problemi molto diversi tra loro e che richiedono anche uno studio verticale dello specifico problema. Quindi, anche in questo caso, a usare quella parte della nostra persona che fortunatamente una macchina oggi ancora non ha (e che spero non avrà mai): la fantasia, l’intuizione “geniale” che può essere risolutiva.

Questo, però, avviene all’interno di una comunità che condivide mission, approccio e sensibilità (gli ingegneri clinici si sentono da sempre parte del processo assistenziale).

Ma ci è chiesto un passo in più: imparare a parlare con chi non è parte di questa comunità, con chi spesso la approccia in una condizione di fragilità e di bisogno e quindi chiede (per non dire pretende) un certo tipo di risposta. La divulgazione, la comunicazione in tema sanitario e scientifico non può essere più rivolta alla sola comunità di esperti, ma è necessario acquisire strumenti tecniche e linguaggi utili a far capire a tutti, meglio se in un momento in cui il bisogno non è acuto, criteri, ragioni e giudizi sulla pratica clinica e sulla tecnologia che lo supporta. Questo è un nuovo compito delle società scientifiche che devono imparare a “guardare fuori” da sé stesse. Un lavoro non semplice ma – come riscontrabile nelle esperienze già iniziate – a modo suo affascinante e interessante.