Continuità assistenziale, Italia a macchia di leopardo

Il 3 e 4 luglio a Roma alcune centinaia di operatori del settore hanno affollato le sessioni del “Long Term Care Four”, iniziativa di analisi e dibattito sulla continuità assistenziale e sulla sua fondamentale funzione nell’economia del “sistema salute” del nostro Paese.
Presso la sede del Ministero della Salute all’Eur si è ragionato di come la continuità assistenziale, per una popolazione sempre più anziana, debba essere sviluppata al meglio, anche per prevenire i sovracosti di cittadini che avranno sempre più necessità di cure mediche.

Basti pensare che se la spesa sanitaria incide per circa il 7% sul totale del Pil del nostro Paese, si stima che la long term care pesi per l’1,1% del Pil: si tratta di cifre impressionanti.
E si dovrebbe passare dalla logica passiva della spesa a quella attiva dell’investimento, per stimolare una benefica inversione di tendenza.
Si è trattato di una due giorni di riflessione e confronto sulle migliori soluzioni socio-sanitarie da adottare, guardando sia a quanto si sta facendo in altri Paesi europei come Francia, Germania, Inghilterra, Belgio, sia andando ad analizzare il livello di sviluppo della continuità assistenziale in Italia.

In questo contesto altamente qualificato anche in termini scientifici, è stata presentata la prima indagine sulla continuità assistenziale in Italia curata per Italia Longeva – il network di operatori e studiosi dedicato all’invecchiamento, promosso dal Ministero della Salute, dalla Regione Marche e dall’Irccs Inrca – da Davide Vetrano, geriatra dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e ricercatore al Karolinska Institutet di Stoccolma, in collaborazione con la Direzione Generale della Programmazione Sanitaria del Ministero della Salute.

La tematica della continuità assistenziale è questione essenziale e strategica, sia in termini sanitari specifici sia in termini socio-economici generali, ancor più se si considera che l’Italia è uno dei Paesi più longevi al mondo, caratterizzato da una presenza massiccia di anziani: 1 italiano su 4 ha più di 65 anni d’età, mentre sono oltre 2 milioni gli anziani di età superiore a 85 anni.

L’Italia è ai primi posti in Europa, superando anche la Germania, per la crescita dell’indice di vecchiaia: il rapporto tra gli anziani (65 anni e più) e i giovani (meno di 15 anni), stando ai dati Istat, ha raggiunto quota 168,9, un valore altissimo se raffrontato a quello di altre realtà.

«Una presenza così significativa di anziani corrisponde purtroppo a situazioni di cronicità, spesso plurime, multimorbilità e ridotta autosufficienza, mettendo a dura prova i costi sanitari nel settore pubblico e in quello privato», ha sostenuto Fiammetta Fabris, amministratore delegato di UniSalute. «La durata media di uno stato di non autosufficienza va dai 18 mesi per alcune inabilità di tipo fisico ai 12 anni per deficit mentali come l’Alzheimer, mentre il costo del ricovero in casa di cura si aggira in media sui 2-3 mila euro mensili. È impensabile che i singoli privati o il sistema pubblico si facciano carico integrale, da soli, di una spesa del genere, quindi occorre pensare a maggiori sinergie tra sanità pubblica a privata».

Per quanto attiene alla gestione delle patologie croniche, UniSalute (Gruppo Unipol) ha di recente attivato un sistema di monitoraggio a domicilio per diabete, ipertensione e altre malattie croniche. Appositi device rilevano i parametri e li trasmettono alla centrale UniSalute, così che medici e infermieri possano intervenire in caso di necessità.

Proprio in questi giorni è partita la prima collaborazione pubblico privato sul territorio dell’Ats Brianza: circa 200 pazienti della provincia di Lecco con ipertensione e scompenso cardiaco hanno già ricevuto gratuitamente a casa loro un kit di tele-monitoraggio per la rilevazione periodica dei parametri clinici connessi alla loro patologia, coinvolgendo anche i medici di medicina generale.

Come si evince da questo esempio virtuoso, la continuità assistenziale dovrebbe rappresentare la risposta passe-partout, prendendosi cura dei pazienti nell’iter ospedale, casa, territorio e non lasciandoli mai soli. Il tutto con benefici su più fronti: il paziente, che si sente “curato” potendo restare tra le pareti domestiche; il sistema sanitario, che non viene stressato da una richiesta eccessiva di intervento diretto.
Una dinamica sana di assistenza domiciliare consente di ridurre il sovraffollamento degli ospedali e il cittadino anziano non deve ricorrere al Pronto Soccorso per qualsiasi piccola emergenza.

Il presidente della Commissione Igiene e Sanità del Senato, Pierpaolo Sileri, ha sostenuto: «è stato varato ed è in via di sviluppo il Piano Nazionale per la Cronicità, che ha riscontrato, anche a livello regionale, grandi esperienze. Appaiono indispensabili le integrazioni tra gli interventi sanitari e quelli socioassistenziali, fra i setting di cura e le prestazioni offerte da tutti gli specialisti, al fine di gestire al meglio e offrire i servizi più adeguati a chi necessita di long term care».

Lo sviluppo di un sistema razionale e organico di assistenza continuativa a domicilio consente risparmi enormi all’economia del sistema sanitario, liberando risorse che possono essere allocate meglio, a beneficio di tutta la cittadinanza, e non soltanto di quella anziana.

La rete dell’assistenza a lungo termine agli anziani, per funzionare bene, deve però disporre di servizi di assistenza domiciliare e di residenzialità assistita che siano adeguati e diffusi sul territorio. Questi servizi rappresentano uno dei pilastri sui quali si fondano sostegno e cure offerte agli anziani eppure risultano ancora carenti rispetto ai 14 milioni di anziani residenti in Italia.

Lo evidenziano i dati del Ministero della Salute, che ha ricalcolato al ribasso il numero dei cittadini che nel 2018 hanno beneficiato di questi servizi: solo il 2 % degli over-65 è stato accolto in Rsa e solo 3 anziani su 100 hanno ricevuto cure a domicilio.

La quasi totalità degli anziani finisce quindi per “stressare” il sistema sanitario, tra pronto soccorso e ospedali, venendosi a determinare un collo di bottiglia che produce deficit funzionali e overdose di richieste.

Rispetto ai processi ADI e RSA, si registrano peraltro incredibili divari regionali: in Molise e in Sicilia più del 4 % degli anziani può contare sull’ADI, mentre in Calabria e Valle d’Aosta si stenta ad arrivare all’1%.

L’impegno dell’OMS e della Commissione Europea

A livello internazionale, una delle sfide più importanti che alcuni sistemi sanitari si sono posti è proprio riorganizzare il sistema della long-term care e fare dell’integrazione dei servizi il processo-chiave per migliorare la qualità complessiva dell’assistenza sanitaria, l’accessibilità, l’efficienza e la sostenibilità finanziaria del sistema.

Si tratta di una sfida sostenuta dall’OMS e dalla UE, tramite un approccio organico al sistema salute nella sua globalità, per fare in modo che i diversi settori, le istituzioni e gli erogatori dei servizi lavorino simultaneamente e in modo integrato; un percorso che mira ad assicurare un nuovo equilibrio tra ospedale e territorio, valorizzando il ruolo della famiglia e della comunità, cercando di incrementare le cure domiciliari che rappresentano l’intervento preferibile per il paziente.

Molto spesso si tratta di trovare soluzioni che travalichino i servizi sanitari “puri”, in un mix virtuoso con il sociale e i servizi di supporto per le famiglie dei pazienti. La complessiva dimensione sociale si intreccia con quella specificamente medico-sanitaria.

Si tratta di un approccio culturale nuovo, volto a un cambiamento sostanziale di paradigma, che va a ri-orientare il modello assistenziale, finora focalizzato sulla fase acuta e sulla guarigione da una malattia, su un impegno sinergico di persone coinvolte nel fornire assistenza continua e appropriata per garantire una migliore qualità della vita.
Nella riorganizzazione dei servizi assistenziali, la Commissione Europea reputa cruciale la digitalizzazione, tematica alla quale l’incontro romano ha dedicato una specifica stimolante sessione.

La situazione italiana

La situazione italiana evidenzia carenze, in alcune aree, gravi.
L’autonomia delle Regioni in materia di salute determina, anche in questo caso, sperequazioni, asimmetrie, contraddizioni interne al sistema-Paese e si registra una situazione di forte variabilità regionale: a fronte al già citato dato complessivo nazionale medio di 2,7% di over 65 riceventi ADI nel 2018 e 2,2% residenti in RSA, le percentuali variano notevolmente nei diversi contesti.

In relazione all’ADI i volumi massimi di attività sono stati riscontrati in Molise (4,7%), Sicilia (4,0%) ed Emilia Romagna (3,6%). Le percentuali più basse, invece, sono state registrare nel Lazio (1,5%), Calabria (1,1%) e Valle D’Aosta (0,2%).

Si tratta di una variabilità simile anche per quanto riguarda gli anziani ospitati in residenze sanitarie assistite. La Provincia Autonoma di Trento risulta essere l’area italiana con la maggior percentuale di persone over 65 in RSA, pari al 9,4% della popolazione anziana, seguita da Lombardia (3,8%) e Piemonte (3,4%).
Al contrario, Molise (0,2 %) e a pari merito Valle d’Aosta e Campania (0,1%) risultano le Regioni con meno anziani residenti in RSA.

Ancora una volta, la fotografia di una Italia a due velocità: avanguardia e retroguardia, casi di eccellenza e situazioni poco meritevoli di attenzione. È questa una delle conseguenze di quella logica di “autonomismo” delle Regioni.

La proposta di “Nuovo Patto per la Salute 2019-2021” prevede l’impegno dello Stato e delle Regioni a promuovere omogeneità nei servizi di assistenza territoriale socio-sanitaria, per superare l’ancora molto marcata variabilità regionale, e rispondere in maniera adeguata a bisogni di salute, caratterizzati dall’aumento delle cronicità, dall’invecchiamento della popolazione e dall’emergere di nuovi bisogni sociali.

In particolare, si prevede l’adozione di un regolamento che definisca gli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza socio-sanitaria territoriale, nonché il fabbisogno di assistenza per diversi regimi (domiciliare, residenziale e semiresidenziale).

La ricerca presentata nell’economia della due giorni romana si è soffermata su 17 tra le esperienze più virtuose messe in campo dalle Aziende sanitarie locali e ospedaliere in 8 Regioni (Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Toscana e Umbria), che a vario titolo si sono distinte per la capacità di garantire al cittadino una buona continuità nell’erogazione di servizi sanitari e assistenziali sia a livello territoriale sia in ospedale.

Nello specifico si tratta di 8 casi di best practices di gestione delle cosiddette dimissioni difficili e 9 modelli efficienti di organizzazione delle reti territoriali.

L’indagine, oltre a descrivere la situazione regionale a livello di reti di servizi territoriali a copertura regionale, si sofferma sull’analisi di 4 tra i percorsi terapeutico-assistenziali più complessi, che riguardano pazienti con demenza, Parkinson, Alzheimer e piaghe da decubito, dai quali emerge l’importanza di disporre di una fitta e ben concertata multidisciplinarietà a livello delle singole Aziende sanitarie.

Nelle buone pratiche di continuità assistenziale analizzate, uno dei protagonisti della rete è il medico di medicina generale, che fa da perno centrale all’interno di una rete organizzativa e di comunicazione che coinvolge diversi attori.

La collaborazione e la comunicazione tra i diversi professionisti diventano quindi i concetti essenziali di questo percorso, atto a facilitare il viaggio del paziente durante i suoi molteplici contatti con la rete territoriale, sgravandolo dalle incombenze legate a prescrizioni, prenotazioni e liste d’attesa.

«La continuità assistenziale è una forma di efficientamento del sistema: un servizio concreto per i cittadini, che tende a una migliore assistenza e alla semplificazione dei processi», ha aggiunto il prof. Bernabei.

Una continuità assistenziale che inizia già in ospedale: «una buona continuità assistenziale si delinea già al “tempo zero”, dall’arrivo in Pronto Soccorso. Quando il paziente esce dall’ospedale non è abbandonato a sé stesso, con tutti i relativi oneri burocratici, ma c’è qualcuno che gli semplifica la vita nel rientro in comunità. È il sistema che agisce in una logica proattiva, predisponendo, per esempio, il trasferimento presso strutture riabilitative e RSA, attivando l’assistenza domiciliare, senza che sia il paziente a dover rincorrere uffici comunali e consorzi, o ancora dando all’anziano la possibilità di ricevere farmaci e ausili a domicilio, e prenotare visite di controllo da remoto».

L’importanza dello sviluppo digitale

Una questione nodale, essenziale e strategica, sulla quale molti dei relatori intervenuti si sono soffermati, è l’importanza imprescindibile dello sviluppo dell’ICT, ovvero della digitalizzazione del settore, un ambito nel quale purtroppo l’Italia riscontra un forte ritardo, anche a causa di una forte carenza di investimenti.

Il forum romano ha presentato – nella stimolante sessione dedicata al digitale – esperienze eccellenti, come il progetto di Parco della Salute e del Benessere, che sta promuovendo l’Asl 1 di Roma, avvalendosi di evolute tecnologie digitali. Ci sono esperimenti interessanti, anche in Italia, in materia di monitoraggio delle patologie diabetiche, ma anche di tempestiva segnalazione di arresti cardiaci.

Si deve passare dalla fase – purtroppo spesso ancora prevalente – del “gadget” paramedico a quella del “dispositivo medico” vero e proprio, ma purtroppo esistono ancora poche evidenze empiriche: i protocolli di ricerca sull’applicazione delle tecnologie digitali alla medicina sono ancora rari e metodologicamente difformi, e questo deficit determina un ritardo nella diffusione (non soltanto nel nostro Paese).

Il digitale in sanità gioca comunque un perno cruciale, perché può contribuire a garantire percorsi più adeguati ai pazienti, un’assistenza più sicura, un sistema di comunicazione in rete tra i diversi professionisti della sanità, un guadagno di efficienza, un’ottimizzazione nell’erogazione dei servizi e un miglioramento della gestione delle patologie croniche.

In questo senso il nostro Sistema Sanitario Nazionale – che resta un fiore all’occhiello a livello mondiale, soprattutto per il suo carattere universalistico – dovrà quanto prima mettere in atto un cambio di passo, riallineandosi con quanto stanno facendo i Paesi europei più avanzati, sempre restando Israele il benchmark a livello planetario (con processi di assistenza domiciliare molto sviluppati, un efficace sistema informativo digitale del sistema sanitario, e quindi ospedali e pronto soccorso poco affollati…).

In alcuni Paesi si sta affermando addirittura un nuovo concetto di medicina, quasi una nuova scienza: la “deep medicine”, che con approccio olistico intende agire anche sui fattori sociali delle patologie, utilizzando i big data per analizzare e gestire al meglio i processi.

Elena D’Alessandri