Da Stanford Medicine idea innovativa per risolvere la carenza di sangue

Ogni anno in Italia vengono trasfusi oltre 3 milioni di unità di emocomponenti, equivalenti a 8 mila unità al giorno, e vengono utilizzati più di 800 mila kg di plasma per la produzione di farmaci plasmaderivati (dati AVIS).

In alcuni casi in ospedale si utilizza il sangue dello stesso paziente, ma ciò richiede tempo: quando ciò non è possibile, occorre affidarsi a sacche di sangue provenienti da altre fonti, tra cui anche la donazione volontaria.

Purtroppo, in Italia, ma non solo, c’è spesso penuria di sangue e ciò mette a rischio la sopravvivenza di parecchie persone: le trasfusioni sono utili in alcune patologie oncologiche, in pazienti che hanno subito incidenti stradali e no, dopo un intervento chirurgico, ma anche nelle donne che incorrono in emorragia post partum… solo per fare qualche esempio. In linea di massima, quando l’anemia è troppo importante, è meglio trasfondere…

Ma è sempre necessario utilizzare sangue? Secondo una recente ricerca che ha visto la collaborazione della Stanford University con la University of California di San Diego, la risposta a questa domanda è negativa. Gli autori hanno infatti ideato un modello matematico che studia l’interazione tra processi fisiologici e biochimici in un corpo anemico per capire cosa accade nel sistema sanguigno a seguito di una trasfusione di sangue: espansione dei vasi, ispessimento del sangue, cambiamenti nel flusso, produzione di ossido nitrico e così via…

Il modello ha permesso di osservare che l’uso di trasfusioni in pazienti anemici normovolemici, ovvero che non abbiano perso sangue per una ferita, può influenzare la distribuzione di ossigeno nel corpo da parte dei capillari e in qualche modo portare effetti collaterali insidiosi, tanto che si stima che un paziente che abbia ricevuto una trasfusione abbia un accorciamento della vita media del 6% per ogni unità di sangue.

Una trasfusione di sangue comporta un aumento volumetrico che crea uno stress a livello dell’endotelio vasale: questo dovrebbe provocare uno stimolo che porta alla produzione di ossido nitrico che, a sua volta, influenza la circolazione… ma alcuni soggetti sopportano questi cambiamenti meno di altri. In questi soggetti, infatti, l’ispessimento del sangue si traduce in una maggiore difficoltà di portare ossigeno ai tessuti. Ecco perché gli autori dello studio, suggeriscono di verificare la risposta dell’endotelio vasale allo stress volumetrico di un paziente anemico prima di trasfonderlo, per stabilire la strategia più corretta.

A tal fine si può utilizzare il modello da loro proposto, ovviamente. E se l’esito è negativo? Allora, sottolineano dalle università californiane, può essere sufficiente trasfondere altri fluidi, i così detti “espansori di plasma”, ovvero soluzione salina cui vengono aggiunte molecole ad alto peso molecolare: questi fluidi, già testati in vari studi e utilizzati in clinica, sono efficaci nel facilitare l’arrivo di ossigeno ai tessuti, che è poi l’obiettivo ultimo anche di una trasfusione.

Come spiegano gli autori dello studio, questo modello permette di utilizzare il sangue solo nei pazienti che ne possono beneficiare davvero, riducendone quindi l’uso globale e i costi ad esso associato, oltre a portare benefici ai pazienti che, invece, otterrebbero effetti negativi da una trasfusione.

(Lo studio: A model of anemic tissue perfusion after blood transfusion shows critical role of endothelial response to shear stress stimuli. Weiyu Li, Amy G. Tsai, Marcos Intaglietta, and Daniel M. Tartakovsky. Journal of Applied Physiology 0 0:0. Doi: https://doi.org/10.1152/japplphysiol.00524.2021)

Stefania Somaré