Incentivi fiscali, riconoscimento dell’innovazione, nuove politiche di acquisto, cancellazione del payback sono le richieste di Fernanda Gellona, direttore generale di Confindustria dispositivi medici, alle istituzioni. Affinché tutti i produttori possano ripartire dopo il Covid-19.

Il comparto dei dispositivi medici conta a oggi 3.957 aziende, che offrono un’occupazione a 76.400 dipendenti, generando un indotto che, tra mercato interno ed estero, vale 16,5 miliardi di euro. Un settore con numeri di tutto rispetto che è stato travolto (e stravolto) dal Covid, il piccolo virus che ha costretto le imprese ad apportare grandi cambiamenti nei consolidati processi organizzativi e produttivi.

«A oggi i produttori stanno lentamente cercando di andare avanti e guardare al futuro, dopo mesi molto difficili», commenta Fernanda Gellona, direttore generale di Confindustria dispositivi medici.

Partiamo proprio da una delle più rilevanti criticità durante la pandemia. Già a febbraio le aziende produttrici di dispositivi indispensabili per fare fronte all’emergenza sono state travolte da richieste di prodotti che hanno fatto fatica a soddisfare. Qual era inizialmente lo scenario? E come si è evoluta la domanda nei mesi, lungo le varie fasi della pandemia?

«La prima richiesta che è “esplosa” è stata quella di ventilatori polmonari e, più in generale, di apparecchiature per la terapia intensiva e sub-intensiva. Poco dopo si è verificata un’ingente domanda di mascherine e di dispositivi di protezione individuale come visiere, camici, cuffie. In seguito, la richiesta si è concentrata sui tamponi e sui reagenti. Non è stato facile soddisfare le numerosissime richieste, nonostante tutte le aziende produttrici si fossero mobilitate».

Cosa è accaduto, in particolare, per quanto riguarda i prodotti diagnostici? Come è avvenuta la validazione?

«Il produttore dei tamponi, un’azienda italiana pressoché monopolista a livello mondiale, è stato subissato da richieste provenienti da tutto il globo, per fare fronte alle quali ha profuso un enorme sforzo. Anche l’approvvigionamento dei reagenti necessari a estrarre e ad analizzare i tamponi è stato difficile. Parallelamente le aziende hanno validato e immesso sul mercato i test sierologici, che hanno richiesto apposite valutazioni al fine di garantirne la specificità e l’affidabilità. Nonostante si trattasse di un virus nuovo, le validazioni sono avvenute in tempi rapidissimi».

In generale, soprattutto nella fase 1, le richieste di approvvigionamento vi sono giunte in modo parcellizzato, frammentato. Cosa ha comportato questo?

«La situazione di grande confusione ha determinato un lavoro aggiuntivo molto gravoso. La nostra associazione ha cercato di “smistare” la domanda proveniente dalle istituzioni indirizzandola alle imprese, ma queste ultime hanno comunque ricevuto richieste da ogni parte, ovvero dalla Protezione civile, dal ministero della Salute, dalle Regioni, dai singoli ospedali, dai donatori. In particolare, tale frammentazione ha esposto gli operatori di mercato a problemi di fair allocation dei prodotti e ha determinato un’impennata della domanda percepita da parte delle imprese, spesso non rispondente all’effettivo fabbisogno».

Vista la situazione di estrema necessità, in alcune aziende, anche estranee al settore biomedicale, si è verificata una corsa alla riconversione della produzione. Come avete affrontato questo aspetto?

«Abbiamo agito in collaborazione con Confindustria, dal momento che molte aziende che hanno cercato di riconvertirsi facevano parte della confederazione. Il fenomeno della riconversione ha riguardato soprattutto le mascherine, ritenute il dispositivo medico più facile da produrre. Per fornire indicazioni produttive in quest’ambito, abbiamo dedicato una parte del nostro sito web ai requisiti e alle normative e abbiamo attivato un’apposita collaborazione con l’Istituto superiore di sanità. Molte imprese di tessuti si sono offerte per la produzione, ma solo una su dieci ha ricevuto il nulla osta, il che conferma l’accurata selezione che è stata fatta a tutela di operatori e cittadini. Alcune imprese, anche se in misura molto minore, si sono offerte perfino di produrre ventilatori polmonari».

I prezzi, soprattutto nella fase 1, sono lievitati. Si veda, per esempio, il caso delle mascherine…

«Di norma, come associazione di categoria, non trattiamo questa questione, ma ci sarebbe piaciuto essere coinvolti dalle istituzioni nelle trattative riguardanti le forniture, in modo da poter fornire le informazioni utili alle istituzioni per definire un prezzo il più possibile in linea con gli effettivi costi del mercato. Da un lato, è infatti giusto tutelare l’acquirente da possibili speculazioni, dall’altro occorre, però, stabilire un prezzo equo, che tenga conto di alcuni fattori, come il costo della materia prima, della distribuzione, dell’organizzazione. Nelle prime fasi della pandemia il nostro coinvolgimento è stato episodico e l’interlocuzione era scarsa, mentre oggi riusciamo a offrire una collaborazione più strutturata, più proficua per tutti».

E per quanto riguarda i prezzi dei prodotti ospedalieri in gara?

«È probabile che nel momento di massima richiesta i prezzi possano essere aumentati, anche se molti produttori hanno ridotto al minimo i propri margini di profitto».

In proposito, in febbraio le imprese associate a Confindustria dispositivi medici hanno sottoscritto un accordo di responsabilità. In che cosa consiste?

«Si tratta di un documento condiviso dalle imprese, nel quale viene sancito l’impegno a mantenere i prezzi dei dispositivi ai livelli pre-crisi, a concentrare al massimo la propria capacità produttiva per affrontare l’emergenza, a garantire la fornitura in via prioritaria alle istituzioni pubbliche preposte alla gestione del virus».

Vi state in qualche modo preparando per affrontare un possibile secondo picco di pandemia il prossimo autunno?

«Le imprese stanno continuando a lavorare in tutto il mondo, aumentando i livelli di produzione. Questo fattore dovrebbe poter garantire la presenza di tutti i dispositivi necessari in caso di futura necessità».

Durante la pandemia, alcune imprese hanno subìto una rilevante contrazione degli ordini. In proposito, una vostra recente indagine ha messo in luce l’impatto economico causato dal Coronavirus sui produttori del settore. Cosa è emerso?

«La survey, che si è svolta dal 27 aprile al 6 maggio su un campione di imprese, ha mostrato un quadro preoccupante.

Infatti, escludendo le poche aziende presenti nelle aree terapeutiche connesse al trattamento del Covid, la gran parte delle imprese ha risentito del blocco delle altre attività sanitarie. In particolare, nel periodo gennaio-marzo del 2020, si è verificata una riduzione media del fatturato pari al 5,5%, che ha colpito soprattutto le piccole imprese.

Tra marzo 2020 e marzo 2019 la diminuzione media del fatturato è stata di circa il 14%, mentre più del 79% delle imprese prevede che il fatturato a fine anno registrerà un sensibile ribasso rispetto a quanto preventivato».

Un’altra vostra ricerca ha evidenziato, inoltre, le conseguenze dell’emergenza sull’occupazione. Cosa è risultato?

«Al momento della chiusura dell’indagine, il 17 aprile, quasi la metà delle imprese del settore utilizzava o avrebbe utilizzato di lì a poco la cassa integrazione in deroga. È stato evidenziato, in particolare, che il ricorso a quest’ultima soluzione era direttamente correlato alla dimensione aziendale: hanno fatto ricorso a questo ammortizzatore sociale solo un terzo delle grandi aziende e circa i due terzi delle piccole imprese».

Qual è la vostra posizione sull’approvvigionamento tramite gare centralizzate?

«Nel nostro ambito le gare centralizzate sono uno strumento spesso deleterio, soprattutto se portano alla scelta di un unico fornitore al prezzo più basso, il che penalizza sia la concorrenza che l’innovazione. Meglio sarebbe procedere con lo strumento dell’accordo quadro».

Nel resto dell’Unione Europea com’è la situazione in proposito?

«La gestione della spesa sanitaria è un problema per tutti gli Stati europei, considerando il progressivo invecchiamento della popolazione. Tuttavia in altre nazioni non ci sono stati i tagli lineari che si sono verificati in Italia.

Oggi serve perciò un più cospicuo finanziamento della sanità, che costituisce un settore strategico per il nostro Paese, generando, tra l’altro, circa il 10% del Pil. In particolare, occorre passare da un finanziamento a silos, che si basa cioè sulla singola prestazione, a un finanziamento complessivo che tenga conto dell’intero percorso diagnostico e terapeutico del paziente. Per esempio, investire in un mammografo di ultima generazione può servire a effettuare una diagnosi di tumore alla mammella più accurata e precoce, limitando così in futuro l’eventuale ricorso a interventi chirurgici e a terapie. Un imperativo etico, senza dubbio, ma anche un vantaggio dal punto di vista economico».

Correlato al tema dei finanziamenti pubblici alla sanità è il problema della progressiva delocalizzazione delle imprese. Come si può intervenire?

«Si tratta di un problema di carattere industriale, ma anche politico. Perciò vorremmo proporci come interlocutori delle istituzioni al fine di costruire insieme delle regole che agevolino il ritorno degli investimenti in Italia.

Affinché ciò avvenga sono, però, necessarie alcune condizioni, come incentivi fiscali, riconoscimento dell’innovazione, nuove politiche di acquisto, cancellazione del payback. Se ciò si realizzerà, ci sarà un beneficio per tutti».

Di recente vi siete rivolti al Governo lamentando il ritardo nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione…

«Sì, attualmente vantiamo un credito di 1,9 miliardi di euro, il che acuisce i problemi di liquidità delle imprese e certo non incentiva il ritorno degli investimenti nel nostro Paese».

Paola Arosio