Un po’ bistrattata da molte strutture ospedaliere perché ritenuta costosa, la buona microchirurgia consente di risolvere traumi in modo completo, con follow-up ottimali e riducendo i ricoveri e reinterventi successivi.
Sembrerà incredibile, ma statisticamente i grandi traumi colpiscono soprattutto la mano. E spesso i bambini. Si parla di amputazioni o lesioni a braccia, mani e dita legate a incidenti domestici, lavorativi, sportivi o stradali e che possono essere risolte positivamente solo se gestite con tempismo e da un’équipe esperta in microchirurgia.
Altro aspetto essenziale è che la struttura ospedaliera possa garantire un’accoglienza h24 e 365 giorni l’anno. Purtroppo anche se sulla carta esistono diversi centri in grado di gestire questi traumi, sono pochi quelli che garantiscono la continuità e che hanno sempre a disposizione un’équipe opportunamente formata. Pesano su questo punto sia un visione miope, che legge solo i costi immediati di un intervento microchirurgico e non quelli più a media distanza, e la mancanza di giovani formati e che vogliano impegnarsi in un settore forse meno redditizio di altri, ma che dà grandi soddisfazioni.
Di tutto questo abbiamo parlato con il professor Giorgio Pajardi, direttore dell’UOC di Chirurgia e Riabilitazione della Mano dell’Ospedale San Giuseppe, Università degli Studi di Milano e direttore del Cadaver Lab, il primo laboratorio dove è possibile apprendere la microchirurgia operando su pezzi anatomici da cadavere. Quindi con un approccio diretto e non solo virtuale.
118: ampiamente preparato
Se si accede al sito della Società Italiana di Chirurgia della Mano si può visionare una cartina in cui sono indicati i centri che possono accogliere h24 persone con traumi all’arto superiore (http://www.sicm.it/it/chirurghi-e-professionisti/centri/centri-h24-118-cumi.html). A questi centri di norma fa riferimento il 118.
Racconta il professor Pajardi: «Era il 1992 e la Società Chirurgica Italiana si era organizzata e aveva dato il via al CUMI, Coordinamento Urgenze Mano Italia, con l’intento di predisporre in tutta Italia dei Centri in grado di gestire i traumi agli arti superiori. Allora ci fu un’azione quasi spontanea, partita dal 118 di Modena, che si rese disponibile a fare da coordinamento per tutti i 118 nazionali nel dare indicazioni riguardo a dove trasportare un amputato. Oggi il CUMI è stato superato dalla costituzione, in quasi tutte le Regioni, di una Rete Emergenza Mano. In Lombardia tale deliberà è arrivata nel 2014». Vediamo quindi come funziona questa Rete, in cui il 118 è protagonista. «Quando si ha a che fare con una amputazione o una lesione importante alla mano o arto superiore, è importante individuare per tempo chi deve essere portato dove. E questo ruolo spetta al 118», riprende Pajardi. «Di norma se si tratta di una grande amputazione, il 118 porta direttamente il paziente in una struttura dove esiste una equipe di microchirurgia qualificata: qui il paziente viene prima accolto dal triage, stabilizzato e portato in sala operatoria. Esiste anche un tipo di trasporto secondario. Se l’amputazione riguarda solo il dito, infatti, capita spesso che il paziente arrivi direttamente al PS più vicino a casa sua. In questo caso il PS che lo riceve fa il triage, lo stabilizza e quindi lo invia con il 118 al centro specializzato». Quando si tratta di amputazioni il tempo è oro: se non si rispettano le tempistiche date dalle linee guida, infatti, si rischia di fare più male che bene al paziente.
«Per fortuna il 118 lavora ottimamente», riprende il professor Pajardi. «Di recente si è verificata un’amputazione grave in un bambino in provincia di Bergamo, sulle montagne. In poco più di un’ora era già all’Ospedale San Giuseppe».
Questione di tempo
Quando un arto o un dito viene staccato dal resto del corpo, la vascolarizzazione viene interrotta e nel giro di qualche minuto l’ossigeno a disposizione finisce e i tessuti iniziano a produrre cataboliti, sostanze tossiche che di norma verrebbero prese dalla periferia ed eliminati con le urine, ma in questo caso si accumulano. Ecco perché l’idea è mettere subito l’arto, la mano o il dito al freddo. Attenzione però: la parte non deve essere messa a contatto diretto con il ghiaccio perché ciò ne rovinerebbe la qualità dei tessuti.
«La soluzione migliore», spiega il professor Pajardi, «è mettere il pezzo in un vasetto pulito e mettere questo a contatto con del ghiaccio, in una borsa termica».
Il tempo è una variabile da rispettare, dicevamo. Ma quali sono le tempistiche? Molto dipende dal tipo di trauma e da dove è avvenuta la mutilazione.
«I fattori da considerare sono principalmente 4: l’entità del segmento amputato e se l’ischemia è calda o fredda. Una zona di arto caratterizzata da grosse masse muscolari tenderà a creare più cataboliti di una con meno muscoli. Quindi, se l’amputazione avviene dal polso in su, l’intervento deve essere ancora più tempestivo. Altro fattore è se l’amputazione avviene in casa, o al lavoro, e la parte che si è staccata viene messa subito al freddo, oppure se si verifica in un trauma stradale e quindi la parte resta del tempo a temperatura ambiente.
Per riassumere si può quindi dire che il braccio, dal polso in su, deve essere riattaccato entro 6 ore dall’amputazione. Intendendo intervento finito. Il che significa che il paziente deve entrare in sala operatoria entro le 3 ore.
A fine intervento, inoltre, deve essere ricoverato in Terapia Intensiva e spesso messo in dialisi, perché la ricostituzione della vascolarizzazione crea una valanga di cataboliti in arrivo ai reni, che devono essere aiutati nello smaltimento. I tempi si dilatano a 12 ore per un’amputazione di mano o di dito avvenuta con ischemia calda. Se invece si tratta di una mano, di un dito o di una parte tenuta al freddo da subito, allora si può aspettare qualche tempo in più».
Per poter rispettare queste tempistiche il Pronto Soccorso deve essere ben organizzato. Teoricamente dovrebbe allertare l’équipe prima che il paziente arrivi, perché inizi a preparare la sala operatoria per l’intervento. In un certo senso, il meccanismo dovrebbe essere semi-automatico. Non sempre è così.
Quali caratteristiche deve avere un centro?
«Per poter affrontare al meglio le situazioni di cui sopra, è necessario rispondere ad alcuni requisiti, alcuni dei quali definiti dalla Comunità Europea. In primis, devono essere presenti almeno 3 microchirurghi con una certificazione europea FESSH, di cui uno sempre in reperibilità. Inoltre il centro deve essere aperto h24, 7 giorni su 7 e 365 giorni l’anno ed essere in grado di gestire anche due traumi in contemporanea. Ciò significa che anche se sulla carta in Italia ci sono vari centri in grado di accogliere urgenze, in reale molti non lo fanno. Questo non significa che le altre strutture non abbiamo professionisti bravi, ma che l’organizzazione è inadeguata ad accogliere i pazienti, vuoi perché non operano h24, vuoi perché nei festivi non si trova il chirurgo e così via. Il tutto peggiora quando si parla di traumi su bambini. Qui il tassello che spesso manca è l’anestesista. Addormentare un bambino o un adulto è diverso. E non tutti hanno la fortuna, come noi, di avere molti anestesisti esperti. In Multimedica è così perché la mia équipe opera almeno 600 bambini l’anno, con età compresa tra 0 e 12 mesi. Lo stesso vale anche per altri tipi di trauma alla mano: immaginiamo di infilare per errore la mano in una impastatrice. Questa resterà attaccata, ma dentro tutto sarà ridotto a pezzi», evidenzia il professor Pajardi.
Quindi, per poter intervenire al meglio occorre avere i giusti professioni e, al contempo, la giusta organizzazione. E poi?
Avanti giovani: la microchirurgia vi aspetta
Per avere centri con i giusti professionisti e la giusta organizzazione servono due cose: giovani o meno giovani che decidano di specializzarsi in microchirurgia e Direzioni Sanitarie lungimiranti che destinino fondi per questa specialità. Iniziamo ad affrontare il primo tema.
«La microchirurgia», spiega Pajardi, «interviene per tutte quelle lesioni che prevedono di dover reimpiantare arti o parti di arti superiori e, in alcuni casi, inferiori. Include poi il trapianto di ossa, tendini, cute, prelevate dal corpo del paziente e trasportate microchirurgicamente nella zona interessata dal trauma. Questo, oltre agli impianti delle dita dei piedi nella mano dei bambini affetti da malformazioni congenite. Una tecnica fondamentale che vive oggi un periodo di declino. Si tratta, infatti, di un tipo di disciplina che richiede grande impegno per la fase di apprendimento e tempistiche lunghe per gli interventi sul paziente. Per riattaccare una mano o un lembo sono necessarie almeno cinque ore, un lasso temporale in cui il chirurgo potrebbe fare interventi più veloci con soddisfazioni immediate, anche economiche».
Cosa si può fare, quindi? La risposta potrebbe essere puntare su una formazione di qualità. «Bisogna fare in modo che i corsi siano più accessibili e che i giovani interessati possano sperimentare l’emozione di vedere un paziente riuscire a riutilizzare un arto che si era staccato e riprendere la propria vita, oppure quella di intervenire su un piccolo nato con una malformazione e donargli la possibilità di una vita dignitosa. Ora questa occasione c’è, grazie al Cadaver Lab aperto da Multimedica. In questa struttura i giovani medici possono infatti apprendere come suturare al meglio nervi e vasi sanguigni, tessuti e tutto quanto serve per riattaccare un arto. E lo possono fare su pezzi anatomici umani, da cadavere.
L’alternativa, oggi che non si può più apprendere sugli animali come ho fatto io ai miei tempi, è imparare in sala operatoria o farlo con vie virtuali, simulazione o simili. Sinceramente, chi rischierebbe di imparare una tecnica chirurgica sulla pelle di un paziente? E quale sensazione di utilità può derivare dall’usare camere di simulazione? Credo che questo laboratorio, di fatto un’ala dell’ospedale stesso, anche se adibita alla formazione, permetterà a giovani specializzati di avvicinarsi al campo. Una volta trainati al Cadaver Lab, passano al tirocinio in équipe, dove affiancano chirurghi più esperti e mettono mani allenate sul paziente. Altro aspetto essenziale da sottolineare è che il microchirurgo deve essere in grado, da solo, di utilizzare tecniche tra loro molto diverse e proprie di altre discipline. Se non sa farlo, non si può definire un microchirurgico».
Inoltre, questa tecnica è utilizzata in vari ambiti, tanto che i corsi di Microchirurgia organizzati all’Ospedale San Giuseppe sono frequentati da studenti provenienti almeno da 4 diverse discipline. Affrontiamo ora il tema economico.
Una microchirurgia efficiente consente di risparmiare
«Se la microchirurgia è in declino», riprende il professor Pajardi, «è anche perché per le strutture ospedaliere costa troppo. Per reimpiantare un lembo di arto ci vogliono 5 ore. Un intervento così lungo porta spese alte a fronte di un solo paziente operato nel medesimo lasso di tempo in cui il chirurgo potrebbe eseguire circa cinquanta casi di tunnel carpale. Questo vale sia per le strutture private sia per il Servizio sanitario nazionale, che ha l’esigenza di risparmiare e di contenere il tetto di spesa».
È anche vero che quando un amputato viene trattato male, poi si presenta più volte in Pronto Soccorso, se non viene ricoverato nuovamente per subire un secondo intervento.
«Nella nostra struttura eseguiamo molti interventi alla mano su pazienti che sono già stati trattati altrove. Una situazione che comporta costi. Lo sa bene Regione Lombardia che ha iniziato ad ascoltare e ha fatto delle misurazioni: ha confrontato i costi di un amputato trattato da una equipe microchirurgica di qualità con un altro che ha seguito strade diverse. I risultati sono lampanti: anche solo da un punto di vista sanitario, il secondo paziente costa alla regione 10 volte più del primo. A questi calcoli andrebbero aggiunti poi i costi sociali: un reimpianto mal fatto porta spesso a delle disabilità, con conseguenze sia per il mondo del lavoro che per quello delle pensioni».
Inoltre, una équipe ben formata è in grado di velocizzare i tempi di un intervento di reimpianto perché è in grado di lavorare in doppio. Ciò consente di dimezzare i costi di un intervento. Conferma il professor Pajardi: «La microchirurgia offre possibilità ricostruttive impensabili. Oggi, se il microchirurgo è ben preparato e quindi in grado di affrontare delle metodiche avanzate con tempi di esecuzione più che ragionevoli in rapporto al risultato, è possibile ottenere risultati impressionanti, che portano a una diminuzione delle invalidità permanenti e quindi dei costi sociali per l’individuo. Questi risultati si possono ottenere solo con un tipo d’intervento più complesso e avanzato che garantisce di non dover intervenire nuovamente sul paziente e dimezza i tempi di recupero. La microchirurgia regala soddisfazioni immense per i pazienti e per i chirurghi», conclude il professore. Servirebbe quindi un cambio di passo e di cultura. Cambio che andrebbe a vantaggio di pazienti e finanze regionali.
Roberto Tognella