Posti letto, personale, comunicazione con i familiari, medicina difensiva, cure palliative, regionalismo sanitario. Ne abbiamo parlato con Angelo Gratarola, membro del consiglio direttivo della Siaarti.

«Faccio parte dei tanti che sono stati travolti da questo tsunami, un’onda che spettavamo, ma di cui non conoscevamo né la portata né la ferocia. È arrivata e ci ha travolto. Adesso sono qui, riesco a prendere fiato, cerco di guardarmi intorno e di capire cosa resta. Già, adesso il momento frenetico è passato e lascia spazio al momento lento della riflessione.

Ora riesco a mettere tutto un po’ più a fuoco e a vederlo meglio. Ricordo ogni singolo sguardo che ho incrociato […] Ricordo ogni singola mano che ho stretto […] Ricordo le rassicurazioni e le promesse che non sono riuscito a mantenere. Ricordo ogni singolo paziente e la sua solitudine», ha scritto un anestesista. «La rianimazione è vuota, spoglia. Nell’aria l’odore pungente dell’ipoclorito di sodio […] Le luci sono spente, i monitor silenziosi. I muri, se potessero parlare, ne avrebbero di cose da raccontare, ma sono stati tirati a lucido anche loro e tacciono, sopiti. Trattengo il respiro ed entro in punta di piedi in quella pace, per non alterarla, per non spostare niente, neanche un soffio d’aria. Voglio ricordarmela così la nostra terapia intensiva, ripulita, depurata, rinnovata, sgombra dalla fatica e dal dolore. I ventilatori, dopo due mesi di lavoro incessante, finalmente dormono», ha annotato un altro.

Sono alcune delle testimonianze di chi ha affrontato la pandemia in trincea, riunite nel blog www.vissuto.intensiva.it messo in rete dalla Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti).

«Si tratta di un’iniziativa mirata a raccogliere le esperienze, i racconti, le riflessioni dei professionisti che hanno combattuto in prima linea», spiega Angelo Gratarola, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale Policlinico San Martino di Genova e direttore del dipartimento di Emergenza Urgenza della Regione Liguria, oltre che membro del consiglio direttivo di Siaarti.

Questo progetto di medicina narrativa è molto bello e significativo. Come è nata l’idea e quante storie avete raccolto?

«Il progetto è stato avviato con l’intento di lasciare una traccia, un ricordo di quanto accaduto in quei mesi drammatici. Abbiamo raccolto centinaia di storie provenienti dal più avanzato baluardo della lotta contro il Coronavirus. Alla fine sarebbe bello pubblicarle tutte in un libro».

In questo caso internet ha aiutato a creare una connessione tra colleghi…

«Assolutamente sì. Anche se eravamo fisicamente distanti, ci ha aiutati a sentirci più vicini. E ha anche favorito i contatti tra medici e infermieri e i loro familiari».

Su quanti anestesisti e su quanti posti letto potevamo contare prima che scoppiasse l’emergenza?

«Su circa 15-16mila anestesisti e su circa 5mila posti letto, che corrispondono a una media di otto posti letto ogni 100mila abitanti. Un valore più basso rispetto a quello europeo, che si aggira intorno ai 12 posti letto ogni 100mila persone».

Quando avete capito che questi posti non sarebbero stati sufficienti per affrontare la pandemia?

«Già in tempi ordinari i posti letto di terapia intensiva non erano molti, soprattutto a causa del definanziamento a cui è stata sottoposta negli anni la sanità. Perciò è risultato fin da subito evidente che le dotazioni di posti letto di cui disponevamo non sarebbero bastate per fare fronte all’emergenza».

Quanti posti letto siete riusciti a implementare durante il picco pandemico?

«Li abbiamo raddoppiati, arrivando a quota 10mila, ovvero a 16 posti letto ogni 100mila abitanti. Per gestire questo poderoso incremento, tutti gli anestesisti e gli infermieri operativi in altre aree, come ad esempio le sale operatorie, sono stati convogliati nelle terapie intensive».

Che ne sarà di questi posti letto quando tutto sarà finito?

«Un recente decreto ministeriale propone di incrementare in modo stabile i posti letto di terapia intensiva, arrivando a 14 ogni 100mila abitanti, per un totale di circa 3.500 posti in più rispetto al periodo antecedente alla diffusione del contagio. Credo che un incremento sia utile, al di là delle fasi pandemiche, per affrontare al meglio il trattamento delle patologie complicate e gli interventi chirurgici complessi, ma non sono certo che nel concreto sia realizzabile.

Oltre a tecnologie e attrezzature, occorrerebbe, infatti, un adeguato numero di anestesisti, di cui attualmente non disponiamo, nemmeno contrattualizzando gli specializzandi del quarto e del quinto anno. Del resto, non è ipotizzabile che i posti letto di terapia intensiva possano essere gestiti da altri specialisti, come pneumologi, cardiologi, gastroenterologi, che sono “esperti d’organo” con una minore visione di insieme del quadro patologico».

Cosa proponete di fare, quindi, per uscire da questo impasse?

«Ci vorrebbero più specializzandi nell’ambito dell’anestesia e rianimazione, cioè più contratti di formazione specialistica, il cui numero deve essere calcolato in modo preciso tenendo conto delle esigenze presenti e future. È necessario rendere “appetibile” la disciplina anestesiologica e in quest’ottica anche le prove d’esame per l’accesso alla scuola di specializzazione andrebbero ripensate, in modo da riuscire a selezionare le persone più capaci e motivate.

Il Covid non ha fatto altro che esacerbare problemi preesistenti, che non sono mai stati risolti».

Oltre ai posti letto di terapia intensiva vera e propria, è stato necessario creare anche delle aree sub-intensive…

«Esatto, si è trattato di vaste zone a media complessità in cui veniva praticata la ventilazione non invasiva, che in alcuni casi risultava di per sé risolutiva e in altri era propedeutica all’ingresso dei pazienti più gravi in terapia intensiva».

Durante il periodo più acuto dell’emergenza, la Siaarti ha fornito il proprio contributo anche attraverso vari documenti, tra cui il position paper che fornisce ai colleghi le indicazioni per comunicare con i familiari in condizione di isolamento. Perché è stato necessario?

«Si è trattato di un documento operativo messo a punto in collaborazione con l’Associazione nazionale infermieri di area critica (Aniarti), la Società italiana cure palliative (Sicp), la Società italiana medicina emergenza urgenza (Simeu), con l’obiettivo di fornire agli operatori indicazioni e suggerimenti per comunicare a distanza ai familiari la diagnosi, il ricovero, il decorso del loro congiunto. Tutte comunicazioni che implicano aspetti tecnici, giuridici, psicologici, etici non banali e che, pertanto, soprattutto nella convulsa fase pandemica, necessitavano di linee guida».

Al di là del Covid, si è molto parlato di Terapia Intensiva «aperta»: lei crede in questo modello?

«Molte rianimazioni italiane sono già “aperte”, il che non significa assenza di regole, ma orari di visita il più possibile flessibili nel rispetto della sicurezza. Del resto, vari studi hanno appurato che la vicinanza di un familiare svolge anche un ruolo terapeutico per il paziente, contribuendo a diminuire lo stress, la paura, la sofferenza associati al ricovero, oltre a rendere più accettabile la malattia per il familiare stesso».

Le vostre raccomandazioni mirate a definire i criteri per l’ammissione ai trattamenti intensivi e per la loro sospensione, nel caso di uno squilibrio tra le necessità e le risorse disponibili, hanno suscitato qualche perplessità. Forse sono state da qualcuno male interpretate?

«Abbiamo solo voluto ribadire che i trattamenti medici devono essere ispirati all’appropriatezza, che ci deve essere una proporzionalità nella cura al fine di migliorare la quantità, ma soprattutto la qualità della vita. Sottoporre tutti i pazienti sempre e comunque a qualunque tipo di trattamento è un approccio errato, derivante dalla medicina difensiva, nella quale il medico implementa il proprio operato a scopo cautelativo, fino a sfociare nell’accanimento terapeutico».

A ciò è collegato il tema delle cure palliative nei malati Covid, al quale avete dedicato un altro position paper…

«La medicina palliativa, si occupa del paziente accompagnandolo nella fase finale della vita.

In particolare, provvede al sollievo dal dolore, valorizza gli aspetti psicologici e spirituali, contribuisce a dare dignità. Inoltre, aiuta la famiglia del paziente a convivere con la malattia e poi con il lutto.

Anche ai pazienti terminali con Covid-19 doveva essere garantito l’accesso alle cure palliative, perciò abbiamo deciso di divulgare un documento in proposito».

Come avete vissuto la fase 2?

«Dopo il lockdown i contagi sono progressivamente diminuiti e la presenza dei malati Covid negli ospedali, sia al Pronto Soccorso sia nelle Terapie Intensive, è crollata. In parallelo, è stata riavviata l’attività assistenziale ordinaria e sono stati rimessi in funzione gli ambulatori e le sale operatorie».

Siete pronti nel caso in cui la pandemia dovesse tornare, come è stato ipotizzato, in autunno?

«Credo che questa estate si debba lavorare per stilare procedure e recuperare attrezzature e dispositivi di protezione, mettendoli da parte in vista dell’autunno e dell’inverno.

Inoltre, nel caso di un secondo picco pandemico, si dovrà cercare di curare il più possibile i malati sul territorio, valorizzando il ruolo dei medici di medicina generale. Ciò consentirà di limitare l’accesso agli ospedali ai casi più gravi, in modo da non sovraccaricare le strutture ospedaliere. Dobbiamo, insomma, guardare all’esperienza passata e farne tesoro per il futuro».

L’ultimo “Piano nazionale di preparazione e risposta per una pandemia influenzale” risale al 2006. Cosa occorrerebbe fare adesso?

«Bisognerebbe aggiornarlo alla luce di quanto è accaduto, ridisegnando il modello di ospedale e di territorio. Il primo dovrebbe essere organizzato per intensità di cure, tenendo conto dei diversi gradi di instabilità clinica e complessità assistenziale, il secondo dovrebbe, invece, essere sgravato dalla burocrazia e messo nelle condizioni di operare con maggiore efficienza. Occorrerebbe anche inserire il piano vaccinale valorizzando la prevenzione».

Secondo lei il modello del regionalismo sanitario ha funzionato in tempo di Covid?

«Con un modello centralizzato sarebbe andata peggio. Sono favorevole al regionalismo sanitario, in quanto le regioni italiane sono molto diverse tra loro e per questo necessitano di una governance differente adattata allo specifico contesto. Insomma, ciò che va bene in Lombardia non può andare bene in Sicilia».

Ma questo non rischia di creare venti sistemi sanitari differenti, tanti quanti sono le Regioni?

«Lo Stato dovrebbe dettare le regole generali, finalizzate a una maggiore omogeneizzazione, lasciando poi alla conferenza Stato-Regioni il compito di declinarle su base regionale, tenendo conto delle peculiarità territoriali».

Paola Arosio