Secondo Lorenzo Leogrande, presidente dell’Associazione Italiana Ingegneri Clinici, la pandemia ha messo in luce la necessità di creare aziende ospedaliere flessibili, in cui reparti, posti letto, attrezzature siano facilmente riconvertibili in caso di necessità.
Terapie Intensive piene, con la conseguente necessità di allestirne in fretta e furia di nuove, per offrire ai pazienti in condizioni critiche una speranza di sopravvivenza in più. Di questo si sono occupati gli ingegneri clinici nella fase più acuta dell’emergenza da Covid-19.
«Ci siamo impegnati in prima linea, adattandoci a una situazione difficile e in rapida evoluzione, con l’obiettivo di contribuire alla battaglia che il nostro Paese stava conducendo contro il Coronavirus», afferma oggi Lorenzo Leogrande, responsabile dell’Unità di Valutazione delle Tecnologie Sanitarie del Policlinico Gemelli di Roma e presidente dell’AIIC, ricordando i giorni più bui e dolorosi della pandemia.
Ricapitoliamo partendo dal principio. Quali apparecchiature sono necessarie per allestire un posto letto di Terapia Intensiva?
«Un posto letto di questo tipo è caratterizzato dalla presenza di importanti tecnologie, tra cui un ventilatore polmonare, un monitor multiparametrico, pompe infusionali. Anche il letto stesso, dotato di materasso anti-decubito, ha caratteristiche e funzionalità peculiari, che consentono di pesare il paziente, di fare movimentazioni, di effettuare il basculamento testa-piedi e latero-laterale. Oltre a ciò, sono presenti dotazioni tecnologiche dedicate a un insieme di posti letto, ad esempio un defibrillatore, sistemi per l’intubazione difficile, un ecografo per effettuare delle indagini al letto del paziente, un sistema radiologico, un sistema di analisi chimico-cliniche».
I costi di tutto questo a quanto ammontano?
«A circa 60 mila euro per ciascun posto letto, Iva esclusa, di cui 14-22 mila per il ventilatore polmonare, 6-7 mila per i monitor multiparametrici, 12-18 mila per il letto.
A queste cifre vanno poi aggiunte quelle delle dotazioni tecnologiche condivise, come il sistema radiologico (100 mila euro circa) o l’ecografo (60-70 mila)».
Come avete agito per recuperare i ventilatori e le altre tecnologie necessarie?
«Per quanto riguarda i ventilatori, abbiamo attinto alle dotazioni di backup, ovvero a sistemi vetusti tenuti appositamente da parte per usufruirne in caso di necessità.
Per quanto concerne le altre tecnologie, come pompe infusionali e monitor multiparametrici, abbiamo invece attinto agli altri reparti che avevano momentaneamente sospeso l’attività. In questo scenario, noi ingegneri abbiamo cercato di rendere utilizzabili tutte le attrezzature disponibili, pur con gradi diversi di difficoltà in base alle Regioni. Senz’altro in Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna si sono verificate carenze e criticità più marcate rispetto al resto del territorio nazionale».
Una delle priorità è stata garantire la sicurezza delle apparecchiature…
«Occorre precisare che le dotazioni di recupero, pur non essendo usate correntemente, vengono di norma costantemente controllate dagli ingegneri clinici, proprio per assicurarne la funzionalità e la sicurezza al momento del bisogno.
Pur non essendo all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, le apparecchiature di recupero si sono rivelate adeguate per l’impiego durante la pandemia.
Purtroppo la riutilizzazione dei sistemi di backup non è stata sufficiente a far fronte ai bisogni in crescita esponenziale indotti dalla pandemia.
Per questo il ricorso all’approvvigionamento di nuovi sistemi è stato inevitabile.
A tal proposito si sono verificati due grandi problemi.
Il primo è stato l’inevitabile mancanza di disponibilità di tecnologia da parte del mercato, visto che, come è facile immaginare, la domanda di questi sistemi è “esplosa” a livello mondiale.
Il secondo è stato la distribuzione da parte della Protezione civile di dotazioni emergenziali di varia provenienza, nella maggior parte dei casi prive di marcatura CE, in quanto prodotte in Paesi extra-europei, come Cina, Russia, India. Non è stato semplice gestire le istruzioni operative e le certificazioni».
E quindi cosa avete fatto?
«Alcune tecnologie sono state messe da parte perché presentavano troppe criticità, altre sono state collaudate con riserva e messe rapidamente in funzione per fare fronte allo stato di estrema necessità. In proposito, si è verificata un’anomalia gestionale, perché da un lato ci sono state consegnate queste apparecchiature, ma dall’altro non sono stati forniti gli strumenti per agire in deroga rispetto alla legislazione vigente».
Altre categorie professionali che operano in sanità lamentano una carenza di professionisti, che si è esacerbata proprio nel corso della pandemia.
Gli ingegneri clinici sono sufficienti?
«A oggi gli ingegneri clinici operativi nelle strutture del Servizio sanitario nazionale sono circa mille. Tuttora permane una rilevante carenza, visto che, in una struttura con migliaia di apparecchiature installate, spesso è presente un solo professionista, mentre dovrebbe esserci un team strutturato di esperti che si occupano di ingegneria clinica, con l’obiettivo di gestire nel migliore dei modi acquisizione, implementazione, sostituzione, manutenzione, integrazione delle apparecchiature tecnologiche.
Oltre a questa criticità, nel corso dell’emergenza gli organi centrali non hanno coinvolto gli ingegneri clinici nella definizione dei bisogni, nell’approvvigionamento e nella distribuzione delle apparecchiature.
Un fatto paradossale, visto che una delle variabili più complesse da gestire durante la pandemia è stata proprio quella tecnologica e gli ingegneri rappresentano le figure tecniche deputate a presidiare il settore. In più occasioni ci siamo offerti di collaborare con le istituzioni mettendo a disposizione le nostre competenze, ma purtroppo non abbiamo mai ricevuto una risposta».
Come mai, secondo lei, non siete stati coinvolti?
«È possibile che la nostra figura professionale non sia ancora conosciuta a fondo dalle istituzioni. La nostra associazione sta attualmente lavorando proprio nell’ottica di promuovere la conoscenza, il riconoscimento, la valorizzazione dell’ingegnere clinico».
Un problema analogo si è verificato anche in altri Paesi europei?
«Assolutamente no. Nel corso di un webinar, ci siamo confrontati con i colleghi di Francia, Spagna, Inghilterra, Germania, che hanno avuto un ruolo di primo piano nel corso della pandemia, fornendo alle istituzioni il proprio specifico know how per quanto riguarda l’ambito tecnologico. Uno dei modelli più virtuosi in tal senso è stato quello inglese, che è riuscito a mettere a sistema l’ingegneria clinica nel migliore dei modi».
Sul vostro sito avete avviato un forum per gli ingegneri clinici sul Covid. Da cosa è nata questa esigenza?
«Dato che le difficoltà operative sono state innumerevoli, ci è parso utile fare rete, condividendo le informazioni e le esperienze».
Una collaborazione all’interno della categoria, quindi. Come è stata la collaborazione con le altre figure operative in sanità?
«Credo che la collaborazione sia stata ottima all’interno di tutti gli ospedali, dove si sono azzerate gerarchie e distanze per fare fronte comune contro il virus. In particolare, la sinergia tra ingegneri clinici e anestesisti ha consentito di adattare le tecnologie al livello di severità delle condizioni dei pazienti».
Nella fase dell’emergenza, sono entrati in azione negli ospedali robot di vario tipo. Sono risultati utili?
«In generale, la tecnologia è ormai ampiamente diffusa in corsia, con l’obiettivo di accelerare e perfezionare alcuni processi e di vicariare o coadiuvare alcune funzioni. Durante la pandemia, nell’ospedale di Circolo, a Varese, sono stati, ad esempio, messi in funzione sette piccoli robot, che, grazie a telecamere ad alta definizione, erano in grado di monitorare i parametri vitali dei pazienti, come saturazione, frequenze cardiaca e respiratoria, pressione arteriosa, consentendo a medici e infermieri di comunicare a distanza e in tempo reale con gli assistiti. Un modo per limitare i contatti fisici tra gli operatori sanitari, spesso privi di dispositivi di protezione adeguati, e i pazienti affetti da Coronavirus, altamente contagiosi».
Cosa ha caratterizzato, dal vostro punto di vista, la fase 2?
«In fase 2 il nostro lavoro ha riguarda soprattutto l’ottimizzazione della diagnostica di laboratorio».
Cosa auspica per il futuro, alla luce dell’esperienza pandemica?
«Questa drammatica esperienza ha messo in evidenza la necessità di ripensare gli ospedali nell’ottica della flessibilità, in modo che reparti, posti letto, attrezzature risultino facilmente riconvertibili. Occorre lavorare in questa direzione, con l’obiettivo di creare strutture più innovative e performanti rispetto a quelle attuali».
Qual è il primo passo da compiere?
«Occorrerebbe innanzitutto riesaminare i nostri ospedali, analizzare le loro dotazioni tecnologiche, monitorare il livello di obsolescenza delle tecnologie. La nostra associazione si sta già impegnando, in collaborazione con l’Istituto superiore di sanità e con Confindustria dispositivi medici, per avviare un tavolo di lavoro condiviso su questo tema».
Come vi state preparando ad affrontare un possibile secondo picco pandemico in autunno?
«Credo che l’intero sistema, forte della prima esperienza, avrà tempi di reazione più rapidi e strategie di gestione più efficaci. Per quanto ci riguarda, siamo sicuramente pronti a replicare quanto di buono abbiamo già fatto, cercando di arginare il più possibile le eventuali inefficienze e criticità che si dovessero verificare».
Paola Arosio