Rapporto Oasi 2018: servono 10 miliardi per la sopravvivenza del Ssn

Conti in ordine, ma investimenti scarsi. Buoni esiti di salute, ma con disequilibri territoriali e carenze nei servizi socio-sanitari. Medici e infermieri competenti, ma troppo pochi rispetto alle necessità. Centrali d’acquisto con un’esperienza sempre più consolidata, ma che devono fare attenzione a tempistiche e procedure.

Sono queste, in sintesi, alcune delle evidenze emerse dal Rapporto Oasi 2018, Osservatorio sulle Aziende e sul Sistema sanitario Italiano, realizzato dal Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) dell’Università Bocconi di Milano e presentato lo scorso 29 novembre.

Un volume di quasi 700 pagine, in cui vengono evidenziate luci e ombre, come ben sintetizza il presidente dell’ateneo Mario Monti: «non possiamo dire che il momento è critico, ma desta qualche preoccupazione».
Scorrendo i 18 capitoli è possibile rintracciare tematiche trasversali: dalla spesa sanitaria agli acquisti, dalla regionalizzazione al management, senza trascurare il personale, l’innovazione, la cronicità.
Per ciascun macro-tema ecco una breve analisi, dati alla mano, dell’attuale situazione, seguita dalla relativa ricetta degli esperti per migliorare le criticità e fare in modo che il sistema odierno, basato sui principi di universalità, solidarietà, equità, risulti efficiente e sostenibile.

La spesa sanitaria e l’offerta pubblica di salute

Il SSN contribuisce in modo significativo ai livelli di salute della popolazione, che risultano ottimi. Basti pensare che in Italia l’aspettativa di vita è di quasi 83 anni, superiore a Regno Unito, Stati Uniti e Germania, e che il tasso di mortalità prematura negli adulti è il più contenuto tra i principali Paesi occidentali.

Sul fronte economico-finanziario, il servizio pubblico si conferma in equilibrio di bilancio, come peraltro avviene da sei anni a questa parte.
Per il 2017 si registra solo un lieve disavanzo contabile di 282 milioni di euro, pari allo 0,2% della spesa, che si attesta a 117,5 miliardi di euro, con un aumento dell’1,3% rispetto al 2016.
Gli investimenti sanitari ammontano a 60 euro annui per abitante, corrispondenti a circa il 3% del fondo sanitario nazionale.

«Una spesa sanitaria sobria, per non dire insufficiente», fa notare Patrizio Armeni, professore associato di Government, Health anche Not for Profit presso SDA Bocconi School of Management e coordinatore dell’area di ricerca “Valutazioni economiche e HTA” del Cergas, soprattutto se paragonata a quella di altri Paesi: la spesa in Italia corrisponde all’8,9% del Pil, contro il 9,8% della Gran Bretagna, l’11,1% della Germania, il 17,1% degli Stati Uniti.

A livello individuale, nella nostra Penisola la spesa sanitaria pubblica per abitante è di 1.867 euro, a fronte dei 3.283 della Germania. La spesa pubblica copre circa il 74% del totale, quella privata il 24%.

«L’offerta del servizio sanitario è in graduale riduzione», evidenzia il prof. Armeni, «con una spesa coperta da fonti pubbliche in lieve ma costante riduzione tra il 2010 e il 2017».

Spesa ridotta all’osso, quindi, che va inevitabilmente a inficiare l’offerta di salute. Da questo punto di vista, a fare acqua sono soprattutto i servizi socio-sanitari che oggi riescono a soddisfare solo il 32% del bisogno.
Particolarmente critica la disponibilità di posti letto in strutture sanitarie per anziani non autosufficienti, pari nel 2015 a circa 302 mila, a fronte di 2,8 milioni di persone che ne avrebbero necessità.

Il sistema fatica anche a garantire continuità assistenziale agli anziani in seguito a un ricovero: un over 85 su quattro viene ricoverato almeno una volta l’anno, con una degenza media di 11 giorni, ma solo il 16% viene dimesso, prevedendo qualche forma di assistenza.
Queste carenze non vanno sottovalutate, soprattutto in un contesto caratterizzato da una progressiva frammentazione familiare e sociale, che può esacerbare le condizioni di fragilità: il 32% delle famiglie è composto da una sola persona, per un totale di 8,1 milioni di persone, di cui 4,4 milioni over 60. Tra il 2011 e il 2017 quest’ultima categoria è cresciuta del 14%.
La proposta in tal senso è stanziare almeno 10 miliardi di euro per la sopravvivenza del SSN, riportandolo a un livello di finanziamento vicino alla media europea.

«Questo incremento, che costituisce una stima molto cautelativa, deve alimentare il sistema in modo generale, integrando risorse correnti e investimenti», precisa Francesco Longo, professore associato del Dipartimento di Analisi delle Politiche e Management Pubblico presso SDA Bocconi e ricercatore del Cergas. «Le risorse non devono essere vincolate a silos di spesa, un modello che ostacola l’organizzazione per processi, a rete e catene di valore».

Regionalizzazione, verso 21 sistemi sanitari diversi?

Dopo un periodo piuttosto tumultuoso, caratterizzato da riassetti e accorpamenti delle strutture, i SSR ritrovano una certa stabilità. Nel 2018, come nel 2017, si registrano infatti 120 aziende territoriali, con una popolazione media servita di 500 mila abitanti, e 43 aziende ospedaliere. Le Regioni continuano, però, a offrire un sistema sanitario diseguale, a macchia di leopardo.

Tra il 2014 e il 2016 la mobilità interregionale registra un aumento di circa 8 mila ricoveri, mentre nel 2016 la quota di ricoveri ordinari in mobilità extraregionale è 8,2% per gli acuti e 16,3% per la riabilitazione. Inoltre, alcuni dati, come l’incidenza di parti cesarei o le dimissioni con DRG medico da reparti chirurgici, suggeriscono, secondo gli esperti, il permanere di un gap qualitativo tra i sistemi ospedalieri del Nord e del Sud del Paese.

Una dicotomia che si riflette anche in altri parametri. A cominciare dall’aspettativa di vita in buona salute, che varia dai 56,6 anni al Sud ai 60,5 al Nord, con la Calabria che si assesta a 52 anni e la Provincia Autonoma di Bolzano che arriva a 69. Inoltre, i tassi di mortalità di alcune Province del Mezzogiorno, come Napoli e Caserta, risultano più elevati del 20% rispetto alla media nazionale.

Anche la spesa sanitaria privata delle famiglie è sbilanciata al Nord. Valle d’Aosta e Lombardia, con rispettivamente 951 e 825 euro per abitante, registrano valori più che doppi rispetto alla Campania (335 euro). Le differenze si riscontrano anche sul fronte del personale, che nelle Regioni meridionali è calato significativamente e oggi è inferiore a quello delle Regioni settentrionali: per esempio, al 2016 la Lombardia registra 9,6 dipendenti ogni mille abitanti contro i 7,3 della Campania e i 7,1 del Lazio.

Le azioni da compiere sono ridurre il conflitto istituzionale e regolare meglio i confini tra Stato e Regioni: il primo deve decidere i LEA, i finanziamenti e i criteri di monitoraggio, mentre le seconde devono programmare l’offerta e organizzare i servizi tramite le aziende sanitarie.
«Occorre valorizzare l’autonomia regionale da esercitare nel rispetto degli standard nazionali», spiega il prof. Longo. «Alcuni di questi devono essere implementati in modo uniforme sul territorio in quanto finalizzati a garantire la sicurezza dei pazienti e l’efficacia clinica. Altri, in particolare quelli di tipo gestionale e organizzativo, devono invece essere applicati con maggiore flessibilità. Le Regioni che dimostrano di poter conseguire gli obiettivi di tipo clinico, epidemiologico, economico con soluzioni diverse devono poterlo fare perché, in assenza di flessibilità, non si sviluppano le buone pratiche migliorative. Bisogna prendere atto che il sistema sta evolvendo verso il regionalismo e cercare di orientarlo in senso positivo.

È pertanto necessario dare alle Regioni con buone performance completa autonomia nella pianificazione nel rispetto dei vincoli di bilancio e sostenere le Regioni con basse performance tramite il supporto di altre Regioni e delle agenzie centrali, come Ministero, Istituto Superiore di Sanità, Agenas, applicando una strategia di sviluppo basata sul trasferimento orizzontale di competenze».

È però necessario anche riequilibrare gli organici delle Regioni, permettendo a quelle sotto-dotate di personale rispetto agli standard di sviluppare le proprie politiche di reclutamento.

Management, la “catena del comando”

Al vertice di un’azienda sanitaria pubblica si colloca il direttore generale, il cui ruolo è profondamente mutato negli ultimi anni, in seguito alle trasformazioni delle strutture, caratterizzate da dimensioni sempre più ampie per effetto dei processi di accorpamento.

Il top management oggi ha un ruolo cruciale per orientare le aziende e i sistemi, generando movimenti che concretamente risolvano le criticità più rilevanti», afferma Longo. «Occorre imparare a gestire nella complessità, senza l’illusione di poter gestire la complessità».

Secondo i dati del rapporto, l’incarico del direttore generale, che ha il compito di realizzare gli obiettivi assegnati dalla Regione, dura in media 3 anni e 7 mesi, con forti differenziazioni interregionali che vanno da 1,8 anni della Calabria a 8,4 della Provincia Autonoma di Bolzano.

Per quanto riguarda le tipologie di azienda, si registra una differenza di circa 4 mesi nella durata delle cariche, pari a 3,9 anni nelle aziende ospedaliere e a 3,5 nelle Asl. A sentire gli esperti, si tratta comunque di periodi di tempo troppo brevi per riuscire a gestire realtà complesse.

Non solo. A oggi gli staff del vertice strategico sono esigui, senza contare che gli stipendi dei top manager pubblici si collocano tra un terzo e la metà di quelli della sanità privata, che presenta tra l’altro dimensioni e complessità minori.

Un altro fenomeno che sta attualmente prendendo sempre più piede e che va incentivato è l’inserimento, tra vertice strategico e nuclei operativi, di figure intermedie riconducibili al middle management come i direttori di dipartimento, di distretto o di funzione aziendale.

Le tre strade da intraprendere, secondo il Rapporto Oasi, sono:
– superare la solitudine istituzionale e politica del direttore generale, sviluppando una governance in grado di sostenerlo. Occorre, da un lato, rafforzare il supporto alle direzioni strategiche e, dall’altro, ridurre gli innumerevoli organismi e processi di controllo;
valorizzare i top manager del SSN adeguando gli stipendi, oggi decisamente troppo bassi, alla complessità delle aziende e alle performance raggiunte, selezionando in base a competenze e risultati e non a titoli formali;
investire sul middle management con percorsi di selezione, formazione, carriera.

Il personale tra criticità attuali e sfide future

Un elemento qualificante del SSN è il personale, dal quale dipende gran parte della qualità dei servizi erogati. Nonostante questa importanza, le condizioni degli operatori appaiono sempre più critiche, a detta del rapporto.

Il blocco del turnover, utilizzato per anni come principale strumento di riduzione della spesa, fa sentire i suoi effetti, con il 53% dei medici, il 40% del personale di supporto, il 21% degli infermieri, il 44% dei dipendenti amministrativi che hanno più di 55 anni.

Inoltre, tra il 2006 e il 2016 questi ultimi sono passati da 77.148 a 68.947 e gli under 35 hanno subito una riduzione del 64%. In alcune specifiche funzioni, poi, la percentuale di addetti sotto i 35 anni è addirittura inferiore al 10%.

Focalizzando l’attenzione sull’evoluzione del rapporto tra infermieri e medici e tra personale di supporto e infermieri, ci si trova di fronte a una situazione di inerzia: il valore medio del rapporto tra infermieri e medici passa da 2,35 nel 2010 a 2,45 nel 2016. Anche per quanto riguarda il rapporto tra personale di supporto e infermieri non emergono sostanziali modificazioni, passando da 4,58 nel 2010 a 4,66 nel 2016.

Per quanto concerne, invece, il costo del personale, nel 2016 l’esborso maggiore è avvenuto per i medici (35% del costo), seguiti da infermieri (32%), personale di supporto (5%), altro personale, come amministrativi, tecnici (28%).

Nello stesso anno un medico è costato come 2,65 infermieri e un infermiere come 0,79 unità di personale di supporto. I ricercatori hanno poi analizzato alcuni casi aziendali (nello specifico, Azienda Ospedaliera Universitaria di Parma, ASST di Bergamo Ovest, Asl di Latina), evidenziando alcune comuni criticità: difficoltà nel reperire i medici di alcune specialità e nel trattenere il personale, problemi nell’effettuare un’efficace selezione degli infermieri, rigidità normative che impediscono un’adeguata flessibilità nell’utilizzo del personale a disposizione.

Il Rapporto Oasi vede qui due vie da percorrere:
– liberalizzare soluzioni contrattuali flessibili per assunzioni mirate. L’inserimento di nuovi dipendenti è una funzione critica e decisiva, resa una sfida dalla competizione tra aziende a causa della carenza di personale. È necessario eliminare i vincoli amministrativi senza valore e permettere il reclutamento sul merito e sulle competenze, favorendo la mobilità tra settori e mettendo le aziende pubbliche nelle condizioni di essere competitive per attrarre i professionisti necessari;
ridefinire il mix di medici e professioni sanitarie, incrementando queste ultime. Tale processo comporterà un aggiornamento delle competenze e risponderà anche alla progressiva diffusione della cronicità.

I processi d’acquisto

L’esperienza delle centrali d’acquisto regionali, che svolgono ormai una quota rilevante delle attività di procurement, si consolida. Con riferimento ai farmaci, la presenza nel lotto di generici o biosimilari e di originatore e la circostanza che il prodotto aggiudicatario sia un generico hanno un impatto positivo importante sul numero di offerte e sullo sconto. Più controverso è il ruolo della tipologia di procedura, del livello di aggregazione degli acquirenti e dei volumi acquistati.

«In generale, è chiaro che l’efficacia di un acquisto non dipende solo dalla qualità dell’oggetto comprato ma anche dalla gestione del processo di approvvigionamento, che richiede una pianificazione strategica a monte», sottolinea Giuditta Callea, professore associato di Government, Health and Not for Profit presso SDA Bocconi School of Management e coordinatore dell’Osservatorio Cergas-SDA Bocconi sul Management degli Acquisti e dei Contratti in Sanità.

«È necessario garantire l’acquisto del bene o servizio più coerente con le esigenze cliniche specifiche, nel momento giusto e alle giuste condizioni. Particolare attenzione va posta alle tempistiche, dato che è frequente che dalla stesura del capitolato all’aggiudicazione definitiva trascorrano 2-3 anni, con il rischio di vanificare l’innovazione veicolata da un dispositivo o da un farmaco. In sintesi, l’attenzione alle procedure d’acquisto è strategica per consentire alle aziende di raggiungere non solo l’efficienza, ma anche la produzione di valore per il paziente».

La proposta che scaturisce in tal senso dal Rapporto Oasi è premiare la vera innovazione tecnologica.
«Le risorse per l’innovazione tecnologica sono limitate e seguono la logica dei tetti di spesa: un approccio miope, che va a detrimento dell’innovazione di valore», spiega il prof. Longo. «Per identificare l’innovazione reale è necessario adottare strumenti di valutazione (come, per esempio, l’HTA), che misurino il valore generato e lo confrontino con i costi incrementali».

Paola Arosio