Il Servizio Sanitario Nazionale riesce ancora a camminare sulle proprie gambe, ma non è detto che riesca a farlo nel prossimo futuro, compresso com’è tra progressivo invecchiamento della popolazione, da un lato, e graduale contrazione della spesa pubblica, dall’altro.
Insomma, è sano ma non troppo.
È ciò che risulta dal rapporto dell’Osservatorio sulle aziende e sul sistema sanitario italiano (Oasi) 2019, redatto dal Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) della Scuola di Direzione Aziendale (SDA) dell’Università Bocconi di Milano.
Un volume di quasi 700 pagine che fa una fotografia a 360 gradi del comparto sanitario, spaziando dalla medicina generale al ruolo dei manager, dai consumi privati ai piani di rientro.
Di seguito proponiamo un mini-report di quanto emerge, suddiviso nei principali settori.
Per ciascuno proponiamo una breve analisi dello scenario, seguita dalla proposta di un esperto del noto ateneo milanese.
L’assetto del servizio pubblico
All’interno del servizio pubblico, dopo i grandi processi di riordino avvenuti tra il 2015 e il 2017, nel biennio 2018-2019 non si registrano nuovi cambiamenti: le aziende territoriali (Asl e Asst) restano 120, mentre le aziende ospedaliere sono 43.
In progressivo calo è il numero di posti letto, che nel 2017 si attestano a 2,9 per mille abitanti nel caso degli acuti e a 0,6 i non acuti.
In contrazione anche i ricoveri (-5,4% rispetto al 2016), con una diminuzione della durata della degenza media.
La notizia positiva è che, per la prima volta dal 2009, si è registrata nel 2017 una lieve crescita nel numero dei medici (+384); la notizia negativa, invece, è che i tempi d’attesa sono aumentati rispetto all’anno precedente per tutte le procedure.
Il commento di Alberto Ricci, professore associato di Practice in government, health and not for profit alla SDA dell’Università Bocconi e coordinatore delle attività di Oasi.
«Il riordino dei Servizi Sanitari Regionali appare concluso e le aziende sono di grandi o grandissime dimensioni in termini di bacino di utenza e dipendenti.
La diminuzione dei posti letto, dei ricoveri e delle Unità Operative ha prodotto maggiore appropriatezza nel sistema, ma preoccupa l’aumento delle attese per molte prestazioni salvavita».
La spesa sanitaria
Nel 2018 la spesa sanitaria a carico del SSN si attesta a circa 119,1 miliardi di euro, pari a 1.900 euro pro capite, ovvero l’80% di quella inglese, il 66% di quella francese, il 55% di quella tedesca.
Si registra un sostanziale pareggio di bilancio, con un disavanzo modesto di 149 milioni di euro.
Il finanziamento, tuttavia, risulta in contrazione con un tasso di copertura del sistema pubblico sulla spesa che oggi è del 73,9% e che è destinato a diminuire.
Il commento di Oriana Ciani, professore associato di Practice, area management pubblico e policy, economia sanitaria e Hta alla SDA dell’Università Bocconi
«Il sistema è in equilibrio di bilancio, ma appare sotto-finanziato. Occorrerebbe rimodulare l’erogazione delle prestazioni sulla base di indicatori di outcome e di equità e limitare progressivamente l’uso di logiche di tetto, spesa storica, budget a silos, promuovendo meccanismi che riflettano o addirittura anticipino bisogni e necessità degli assistiti».
I piani di rientro tra esiti e prospettive
I piani di rientro regionali costituiscono una politica pubblica di sistema introdotta nel 2005, attraverso cui lo Stato interviene per garantire il conseguimento degli obiettivi economici e la qualità delle prestazioni sanitarie.
Nel tempo questa misura, il cui andamento viene monitorato attraverso incontri trimestrali al Ministero dell’Economia, ha riguardato varie Regioni, tra cui Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Sicilia, Liguria, Piemonte, Puglia, Sardegna.
Grazie ai piani di rientro si è verificato un miglioramento di alcuni indicatori, anche se permane un forte gap tra le Regioni più forti e quelle più deboli.
Il commento di Giovanni Fattore, professore ordinario al dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università Bocconi e membro del consiglio direttivo del Cergas.
«Per migliorare gli esiti è necessario mettere in pratica varie azioni: chiarire le condizioni di uscita dai piani di rientro e dai commissariamenti per incentivare il miglioramento; articolare il sistema in modo da avere intensità diverse di commissariamento (si può, per esempio, ipotizzare in alcuni casi un commissariamento light); rafforzare il ruolo del Ministero della Salute; investire maggiormente sui servizi di supporto alle Regioni e sul processo di affiancamento (knowledge transfer); articolare i parametri per valutare le performance sanitarie, distinguendo tra indicatori di medio-lungo periodo e indicatori di breve periodo; mettere a punto sistemi di verifica degli adempimenti, di monitoraggio delle azioni e di valutazione degli effetti.
Tuttavia, non bisogna illudersi che queste misure siano sufficienti per governare nei sistemi complessi: si governa anche, se non principalmente, costruendo cultura, incrementando le buone pratiche, coinvolgendo le persone».
Il settore privato
Le strutture private accreditate detengono complessivamente il 31,3% dei posti letto ospedalieri, per la maggior parte in ambito riabilitativo.
I ricoveri sono pari al 26,5% del totale del servizio pubblico, con il massimo in Lazio (51,4%).
Sul versante territoriale, il privato convenzionato gestisce il 59% degli ambulatori, l’82% delle strutture residenziali e il 68% di quelle semiresidenziali.
Nel 2018 la spesa pubblica per l’assistenza erogata da strutture private è stata di circa 24 miliardi di euro, pari a 392 euro pro capite, ovvero il 20,3% del totale della spesa sanitaria pubblica.
La spesa out of pocket delle famiglie ammonta, invece, a circa 40 miliardi di euro, distribuiti tra beni (35%) e servizi (65%), con variazioni significative a livello regionale: si passa dai circa 370 euro pro capite della Campania ai circa mille della Valle d’Aosta.
Il commento di Lorenzo Fenech, professore associato di Practice in government health and not for profit alla SDA dell’Università Bocconi.
«In un contesto economico “stagnante”, l’elemento cruciale è come le componenti pubblica e privata interagiranno nel rispondere a un bisogno collettivo.
La sfida è riuscire a governare e gestire sistemi e consumi ibridi.
Per quanto riguarda la spesa out of pocket, poi, i consumi sanitari privati delle famiglie hanno ormai assunto un ruolo che non può più essere considerato marginale».
Identikit dei manager della sanità
Si collocano ai vertici della “piramide” e il buon andamento dell’azienda sanitaria dipende in gran parte da loro.
Sono i direttori generali, che, stando a quanto riferito nel report, lavorano per ben 52,7 ore alla settimana. Di queste ore, 11,5 (23%) sono dedicate al lavoro individuale e 28,3 (56%) a meeting e riunioni, sia con il personale interno sia con interlocutori esterni, come per esempio Regione, comunità locali, industria, sindacati.
Il mandato del direttore generale si articola in tre fasi: periodo successivo alla nomina, in cui è importante costruire reti e definire gli obiettivi; fase centrale, nella quale occorre sostenere i propri collaboratori e gestire le resistenze; conclusione del mandato, in cui è necessario valutare il proprio operato alla luce dei risultati raggiunti.
Oltre ai direttori generali, altre figure manageriali che stanno assumendo un ruolo sempre più rilevante nelle aziende sono i direttori di dipartimento e i direttori di distretto (middle management): uomini, età media 63 anni, in tasca una laurea in medicina, ricoprono un ruolo organizzativo intermedio.
Nel complesso, risultano ancora penalizzate nella carriera le donne, che rappresentano il 44% dei medici, ma solo il 16% dei direttori di Unità Operativa e il 17% dei direttori generali in carica.
Il commento di Andrea Rotolo, docente di Practice in government, health and not for profit alla SDA dell’Università Bocconi.
«Per quanto riguarda i direttori generali, è importante che possano costruirsi lo staff necessario a sostenere il ruolo multitasking al quale sono chiamati, che vengano attivati meccanismi di delega agli altri componenti della direzione strategica e che vengano costruiti percorsi formativi e processi di selezione “su misura” per la loro funzione.
Per quanto concerne, invece, i direttori di dipartimento e i direttori di distretto, occorrerebbe andare oltre il mero coordinamento operativo promuovendo un empowerment gestionale».
L’organizzazione della medicina generale
Ospedali, posti letto, primari, direttori generali, ma anche territorio, dove operano 43.731 medici di medicina generale, con un rapporto di circa 72 medici per 100 mila residenti (in Germania sono presenti 70 medici, nel Regno Unito 75, in Francia 90 per 100 mila residenti).
Il report evidenzia che gli strumenti adottati dalle Regioni per il governo dell’assistenza primaria sono diversi, con un quadro nazionale molto eterogeneo e che pochi medici di famiglia fanno parte di forme aggregative, come le Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT) e le Unità Complesse di Cure Primarie (UCCP).
Paradigmatica l’analisi di due modelli di trasformazione della medicina generale, quello lombardo e quello veneto, che rappresentano due diverse tendenze.
Se nel primo caso prevalgono forme di esternalizzazione che puntano sull’imprenditorialità della medicina generale e la inducono ad attivare reti di scambi con gli erogatori, nel secondo prevale invece l’internalizzazione, facendo leva sulla fisicità dei setting e sull’uso degli strumenti manageriali per rafforzare le forme di integrazione, con una forte intermediazione da parte del distretto.
Francesco Petracca, assistente universitario del Knowledge Group di Government, health and not for profit alla SDA dell’Università Bocconi e ricercatore del Cergas.
«Attualmente si discute dei confini tra ospedale e territorio, ma il vero “terreno di gioco” è la presa in carico della cronicità. Per questo sono necessarie sia un’efficace organizzazione della medicina generale e una capillare diffusione di AFT e di UCCP sia la presenza di un gestore competente e in grado di orientare la rete dei servizi».
Paola Arosio