Dalla sua istituzione nel 1978 con la legge 833/78, il Servizio Sanitario Nazionale è cambiato molto. Uno dei passaggi più importanti di questa evoluzione è stato, probabilmente, la riforma del titolo V, avvenuta con la legge 3/2001, che ridisegna le competenze di Stato e Regioni in ambito sanitario.
Da oltre 20 anni, quindi, lo Stato finanzia la sanità pubblica e stabilisce i Livelli Essenziali di Assistenza, ma sono le Regioni a regolamentare la sanità regionale e a determinare l’organizzazione dei servizi sanitari nel finanziamento delle Aziende Sanitarie. Un sistema che, nel tempo, ha contribuito involontariamente, tra l’altro, alla determinazione di differenze nell’accesso alle cure tra diverse aree del Paese, contravvenendo a uno dei principi cardine del SSN stesso.
Se ne è discusso durante il convegno “La sanità italiana: omogeneità e differenziazione”, organizzato da Fondazione Muto ETS e dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli. Focus dell’evento, l’autonomia differenziata, come proposta dal Disegno di Legge 615 del 23 marzo 2023, anche noto come DDL Calderoli.
Il ddl Calderoli vorrebbe l’autonomia differenziata, quali le ricadute per il SSN?
La stessa riforma del Titolo V, già citata prima, prevedeva all’articolo 116, comma 3, che le Regioni a statuto speciale godessero di particolari forme di autonomia sanitaria e che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119”.
In altre parole, le Regioni possono chiedere di ottenere maggiore autonomia rispetto a quella prevista dalla legislazione vigente. Fino a oggi, nessuna Regione si era avvalsa di questo articolo, ma di recente Lombardia e Veneto si sono mosse in questa direzione.
Una richiesta che rischia di far cadere la leva sinora essenziale della leva che lo Stato ha nel far rispettare i LEA. La professoressa Anna Maria Poggi, ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università degli Studi di Torino, sottolinea che Lombardia e Veneto «si trovano nel primo quartile di garanzia dei livelli essenziali di assistenza. Ciò significa che, secondo i dati riportati nel report GIMBE 2023, riescono a garantire ai residenti sul loro territorio quasi il 90% dei livelli essenziali di assistenza previsti a livello ministeriale. Se viene meno la leva centrale della redistribuzione da parte dello Stato vi è da chiedersi quali garanzie avranno i cittadini delle Regioni che riescono a soddisfare il 60% o meno dei livelli assistenziali.
Tra queste vi sono la Puglia (67,5%), la Valle d’Aosta (63,8%), la Calabria (59,9%), la Campania (58,2%) e la Sardegna (56,3%). Come lo Stato potrà allocare risorse alle Regioni che, al momento, forniscono poco più del 50% di servizi di quanto, invece, dovrebbero garantire? Il DDL Calderoli è condivisibile, dunque, nella parte in cui subordina il regionalismo differenziato alla fissazione dei livelli essenziali, ma rimane il tema delle risorse con cui questi si finanzieranno».
Un tema già sentito, quello finanziario ed economico, dal momento che la coperta è già troppo corta per coprire tutte le spese sanitarie, il rischio è di creare una Sanità di prima classe e una di seconda o terza classe.
Il rischio è indebolire ulteriormente la Sanità Pubblica
Due le sessioni previste per l’evento: “Servizio Sanitario Nazionale e differenziazione”, presieduta e introdotta da Sandro Staiano, presidente dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti e coordinatore dell’Osservatorio sul Regionalismo Differenziato, e “Il futuro del servizio sanitario: visioni a confronto”, moderata da Ottavio Ragone, direttore del giornale La Repubblica Napoli.
Durante la mattinata, Staiano ha spiegato come «il settore sanitario è quello che corre i maggiori rischi di disarticolazione, con la conseguente perdita dei suoi caratteri connotativi che, oltre ad aver retto a lungo, lo hanno reso migliore di altri in Europa. Frammentando il SSN, attraverso un eccesso di ruolo riconosciuto alle Regioni, o ad alcune Regioni, perderemmo numerosi vantaggi. Il settore della Sanità, in passato, è stato già ampiamente segnato dalla dislocazione di potere verso le Regioni e questo processo non ha dato sempre i frutti sperati.
Attraverso l’autonomia in materia sanitaria è stato possibile per alcune Regioni di perseguire proprie politiche sanitarie, di puntare tutto sulle privatizzazioni dei servizi e di indebolire in maniera consistente la medicina territoriale, con conseguenze molto gravi per il SSN. Consideriamo, per esempio, quanto è accaduto in Lombardia durante la pandemia, dove il sistema, più che in altre realtà, non è stato in grado di reggere l’impatto del Covid. Oggi, un’ulteriore dislocazione dei poteri sarebbe incomprensibile».
Eppure, il DDL Calderoli chiede proprio questo: che Lombardia e Veneto, ma anche altre Regioni in futuro, possano vedere aumentato il proprio potere decisionale rispetto allo Stato Centrale.
Resta da vedere «sino a che punto la sanità è differenziabile giuridicamente nei diversi territori regionali senza che venga leso il diritto alla salute?» e, ancora se «l’esistenza dei LEA, i livelli essenziali di assistenza sanitaria, e le loro specificazioni nei decreti sugli standard ospedalieri e su quelli territoriali, sono garanzia sufficiente per la sopravvivenza del SSN».
Domande alle quali giuristi, costituzionalisti ed esperti del settore hanno tentato di dare risposta.
Come spesso accade, in Italia, ci si concentra su nuove riforme e modi, senza però concentrarsi sulla risoluzione dei problemi che stanno alla base. In questo caso principalmente carenza di fondi dedicati alla Sanità Pubblica e di personale sanitario dedicato, oltre a debolezza della sanità territoriale.