A un anno fa dall’inizio della pandemia, per la Società Italiana della Medicina di Emergenza-Urgenza è tempo di bilanci, per capire cosa è accaduto e cosa ancora va fatto.

Il dottor Rodolfo Ferrari, presidente regionale SIMEU e direttore della UOC Pronto Soccorso e Medicina d’Urgenza dell’Ausl di Imola, ricorda una prima fase complessa, anche emotivamente, fatta di dubbi, contraddizioni, scarsa conoscenza, terapie sperimentali, stanchezza, diffidenza da parte dei vicini di casa. E anche di paura, perché non era ben chiaro quali fossero le vie di trasmissione del Covid-19. Nei Pronto Soccorso non si è detto “no” a nessuno, tutti venivano accolti e trattati.

«Abbiamo avuto spesso la sensazione», ricorda Ferrari, «che non si sia realmente compreso quanto abbiamo fatto e quanto abbiamo sacrificato. Con risorse umane e materiali che già erano limitate nel rapporto tra domanda e offerta, prima dell’emergenza pandemica».
Nonostante la situazione, Ferrari assicura che tutti hanno sempre tenuto la mente lucida e lavorato per risolvere i dubbi. Si cercavano chiare indicazioni di comportamento, anche per proteggersi e proteggere. Con il tempo si è scoperto qualcosa di più di questo nuovo virus e nella seconda fase le cose avrebbero potuto essere più semplici… e invece chi lavora in Pronto Soccorso ha dovuto fare i conti con la stanchezza e anche con l’esigenza di riaprire il Paese e tornare ad accogliere pazienti non Covid, gestendo diverse situazioni.

L’imperativo era quindi diventato curare in sicurezza, anche la propria sicurezza.
Assicura Ferrari: «su questo siamo stati straordinari. Abbiamo imparato a prenderci cura anche della nostra sicurezza, che in passato abbiamo trascurato: lo abbiamo fatto per il bene di tutti, adattandoci per primi alle necessità e alle informazioni che cambiavano ogni giorno, per giorni, poi settimane, poi mesi. Abbiamo sempre saputo correre le gare in velocità, ora abbiamo imparato anche a correre le maratone, rimanendo in piedi sempre, pronti a rispondere a ogni singola domanda, senza tregua. Abbiamo imparato a farci carico di pazienti sui quali nessuno poteva, né può, dirsi esperto: dai casi più lievi per cui inventare percorsi sicuri verso casa; a quelli più critici, accolti e trattati con modalità semintensive nei reparti che abbiamo approntato in tempi record, adattando le nostre armi a una battaglia da inventare. C’è voluta, e ancora ci vuole, cultura e sacrificio».

Certo, resta l’amaro in bocca nel constatare che ancora oggi i medici di emergenza/urgenza sono poco ascoltati. Ma non è più possibile, dice Ferrari, continuare a lavorare sottorganico e con poche risorse: «occorre fare un adeguamento delle piante organiche alla quantità e qualità di lavoro che ci viene richiesta, che i professionisti del Pronto Soccorso vogliono garantire. Assicurare percorsi formativi specialistici che permettano al personale di essere sempre all’altezza delle prestazioni che vengono richieste».

Da sensibilizzare sono il Ministero, le Regioni e le Università. Ma c’è un ulteriore passaggio: i cittadini devono sapere qual è lo stato attuale dei Pronto Soccorso e le loro reali possibilità, perché solo così potranno capire di recarvisi solo per reali emergenze.
Guardando al futuro, con il timore che possa alzarsi una terza ondata che metta ancora i Pronto Soccorso sotto pressione, SIMEU ha fatto tre semplici richieste: che la gente comprenda la gravità della situazione e si comporti responsabilmente, con rispetto per sé e per gli altri; che i politici ascoltino la voce dei sanitari, di chi in pronto soccorso ci lavora, e stabiliscano regole, le spieghino e ne verifichino il rispetto; che i media lascino meno spazio al dibattito polemico e più all’informazione coerente.

Stefania Somaré