Tumore alla prostata, PSA e uso di valori personalizzati

L’indicatore più usato per suggerire la presenza di un tumore alla prostata è l’antigene prostatico specifico (PSA), identificabile con un esame del sangue. L’idea è che, in presenza di condizioni che ledono le cellule della prostata, la quantità di questo antigene nel sangue aumenti. Questa condizione, però, potrebbe essere data dalla presenza di un tumore, ma anche da una infiammazione, da una prostata ingrossata o, semplicemente, dall’età avanzata.

Tant’è che, negli anni, gli esperti si sono accorti che il valore di PSA è efficace solo negli uomini di età inferiore ai 70 anni: dopo evidenzia molti falsi positivi. Soggetti che vengono sottoposti a una biopsia senza che ve ne sia bisogno. Ne consegue che l’uso del dosaggio del PSA in soggetti over 70 è sconsigliato dalle linee guida internazionali. Inoltre, è possibile che un uomo con tumore prostatico presenti livelli di PSA considerati “normali”.

Ciò può succedere anche perché l’espressione dell’antigene ha una componente genetica, sinora non presa in considerazione. Proprio questa componente, e la possibilità di dosare il PSA tenendone conto, sono il fulcro di uno studio pubblicato da ricercatori della Stanford Medicine su “Nature Medicine”. Secondo gli autori del lavoro, questo approccio ridurrebbe di molto le sovradiagnosi, riducendo al contempo anche il numero di biopsie “inutili”.

John Witte, PhD, professore di epidemiologia e autore senior dello studio, conferma: «alcuni uomini hanno valori di PSA alti per ragioni genetiche. Pur non avendo il cancro, vengono però sottoposti a una serie di interventi a cascata, come la biopsia».

Lo studio indaga, in particolare, la relazione tra geni ed espressione del PSA. Gli autori hanno valutato il genoma e i livelli di PSA di 95768 uomini senza tumore prostatico, scoprendo che nel 30-40% dei casi, valori sovraespressi di PSA sono legati proprio a ragioni genetiche. A questo punto, i ricercatori hanno individuato i siti del genoma che possono influenzare l’espressione del PSA: in tutto sono 128. Come usare questa informazione dal punto di vista clinico? Tramite uno score che riassume la variabilità dei 128 siti in un unico numero. Lo score è stato quindi utilizzato su un altro campione di 32000 uomini senza tumore alla prostata, provandone così la capacità di predire circa il 10% delle variazioni di PSA.

In questa fase, lo strumento si è dimostrato più efficace su persone con antenati europei, piuttosto che si chi ha antenati asiatici o africani. Ma ciò si deve, probabilmente, al campione di origine. Lo score è stato quindi applicato a un gruppo di uomini con o senza tumore, tutti sottoposti a biopsia, mettendo in evidenza che circa il 30% sarebbe stato risparmiato dalla procedura clinica, se fosse stata considerata la componente genetica. Infine, lo score è sembrato utile nell’individuare le forme più aggressive di cancro prostatico.

Lo studio della Stanford Medicine dimostra che l’approccio funziona, anche se per ora soprattutto su soggetti di origine europea. Non solo. Così com’è, lo score non avrebbe permesso di diagnosticare il 30% dei tumori alla prostata. Gli autori sottolineano che si tratta per lo più di tumori piccoli e che non sarebbero comunque trattati, ma comunque il sistema richiede di essere migliorato. Il primo passo è ampliare lo studio a soggetti con antenati di etnie differenti: l’obiettivo è infatti sviluppare uno score unico che funzioni indipendentemente dalle origini del paziente.

(Lo studio: Kachuri, L., Hoffmann, T.J., Jiang, Y. et al. Genetically adjusted PSA levels for prostate cancer screening. Nat Med (2023). https://doi.org/10.1038/s41591-023-02277-9)