L’impegno di tutti per definire un ecosistema della salute

Questo è il mese in cui si svolge il Convegno Nazionale dell’Associazione Italiana Ingegneri Clinici. Quindi per ruolo (e per il fatto che non sono del tutto schizofrenico) non posso non parlare di questo evento. Anzitutto, per invitare ciascuno di voi, ma anche per proporvi una breve riflessione sulla mossa che ci ha spinto a indirizzare in un certo senso l’argomento delle discussioni.

La parola ecosistema definisce un “insieme indissolubilmente interrelato, costituito da una comunità di organismi animali e vegetali e dall’ambiente fisico in cui essa vive” (dizionario Hoepli). È una parola al momento molto usata, forse abusata, in molti ambiti nei quali interessa evidenziare questa “interrelazione indissolubile” tra diversi “organismi” che, anche se non viventi, esprimono nel loro essere una dinamicità e mutabilità continua.

Per questo la parola ben si addice alla sanità nella sua accezione più ampia: la nostra salute (anche quando non siamo malati) dipende fortemente dall’ambiente in cui siamo inseriti e dalle sue interconnessioni con la nostra persona. Più in piccolo, l’utilizzo di questa parola per descrivere l’ambiente digitale è ancora una volta corretto, se si considera che l’efficacia di un ambiente digitale sta proprio nella possibilità di interagire senza discontinuità percepita con diverse sorgenti di dati, fonti di informazioni e possibilità di scambi con questo sistema. Un po’ quello che sperimentiamo tutti i giorni semplicemente prendendo in mano uno smartphone.

Questa la teoria. Ma la realtà? La realtà dell’ecosistema digitale (di cui tutti parlano) nell’ambito sanitario esiste? È una realtà sperimentabile?

La percezione che abbiamo come ingegneri clinici è che questo non sia ancora vero, tangibile, operativo. Anzi: abbiamo ancora molto da fare, non solo sul piano “tecnico” ma anche concettuale, olistico. Questo ecosistema (lo ricordo: insieme indissolubilmente interrelato) è ben definito? Quanto è semplice tessere interazioni indissolubili con esso? È fattibile a tutti i livelli o ci sono ambiti nei quali si è un pochino più avanti e altri nei quali la strada da fare è ancora lunga e tortuosa? E cosa serve (cosa dobbiamo mettere in campo noi, ma anche il mercato che produce tecnologia) per raggiungere questo obiettivo?

E andiamo oltre: se possiamo ipotizzare di avere raggiunto qualche (piccolo) risultato nei nostri ospedali, cosa succede quando usciamo e ci spostiamo sul territorio e al domicilio? La sanità del futuro, la salute di tutti noi si gioca di più fuori dalle mura di un ospedale che dentro e la quantità di dati, l’interazione con il sistema sono molto più rilevanti, dinamiche e continue. Un evento acuto si esaurisce in poco tempo (si spera), la mia vita si prolunga per anni. Oggi abbiamo gli strumenti tecnologici per coprire distanze, gestire gli ammalati, acquisire dati (sanitari) dai sani e usarli a loro vantaggio. Ma lo stiamo facendo?

Occorre, però, una visione unitaria, un obiettivo ben definito. Un ecosistema, appunto. Che la tecnologia non può darsi da sola. La “visione” è tipica dell’uomo, contraddistinto da una consapevolezza di sé, da un’autocoscienza che, calata sull’ecosistema, ne sa definire l’indirizzo per il bene di tutti e di ciascuno. Su questo occorre lavorare e di questo proveremo a discutere con personaggi di rilievo del Servizio Sanitario Nazionale, con l’industria, con gli stakeholder del sistema e utilizzando anche le nostre esperienze quotidiane nell’ambito del prossimo Convegno Nazionale AIIC, perché siamo coscienti che l’opportunità è ghiotta ma bisogna essere onesti nel dirsi se stiamo percorrendo la strada giusta e quanta ne dobbiamo ancora fare.

Spero di incontrarvi (di avervi incontrato) a Roma a discutere di questi aspetti.

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